LA CRAVATE – Alejandro Jodorowsky
L’amore non parla da solo se le proprie attenzioni sono rivolte verso la persona amata e amare significa conoscenza. Questo potrebbe essere proiettato anche in un erratium. Essere amati o amare è un linguaggio che talvolta può sfociare in un’impurità che risveglia informazioni non sempre gradevoli.
Sin dall’inizio della nostra storia la soggettività ci è sempre stata negata; è sempre esistito qualcuno che ha proposto un canone di riferimento, che ha dato fiato (per fortuna non sempre) ad un unico metro di misura. Ma tale giudizio, se così possiamo definirlo, spesso termina in un’accidiosa insoddisfazione che cerca perennemente quel “legittimo ideale di bellezza”, che reca non più insofferenza ma un vero e proprio mal d’essere.
L’equilibrio delle forme, che oggi fa tanta politica, viene messo a dura prova in La Cravate, iniziatico approccio cinematografico del grande Alejandro Jodorowsky. In questa “immaginazione senza fili”, che risente di una rilevante formazione teatrale (basti pensare a Marcel Marceau), il protagonista, lo stesso Jodorowsky, è uno schiavo d’amore che con tanta innocenza cerca di dimenarsi nella fiacca contaminazione dell’esperienza.
Deluso e stressato, nell’intento di accontentare le “leggi visive” della sua matrona castratrice, decide di cambiare la testa, di sacrificare il proprio aspetto e, facendosi svitare il capo dal corpo per sostituirlo con un altro, viene così a cambiare più volte i connotati. “Se cambiassi zucca ogni volta che una donna me lo chiede, a lungo andare non riconoscerei neanche il mio corpo“.
Nella pellicola, dove l’interpretazione dei personaggi è notevole, il messaggio va ben oltre il soggetto. L’intenzione del regista non è solo creare quell’artificio che è quasi il perno del film ma, principalmente, denunciare quella condotta (sempre attuale) dove la testa è matrice di pensieri e sentimenti, perciò difficile da gestire, e il corpo, più incline a soddisfare i nostri desideri, è la legge imponente che muove lo stato delle cose.
Effettivamente se cambiassimo sempre personalità non avremmo più una natura e per questo saremmo più facili da gestire, i sensi di certo verrebbero soppressi o meglio dimenticati in chissà quale testa. La pellicola è una contrapposizione tra sintonia visiva e annotazione tutt’altro che armoniosa. Jodorowsky demolisce l’analogia tra esseri umani, amanti e non amanti in quei rapporti sempre in agguato, dove la migliore difesa non è l’attacco, come non può essere la fuga, ma l’esperienza. L’eleganza sia registica che fotografica si sposano perfettamente con quella recitazione così ironica e comunicativa di uno stato umano per niente assurdo, che descrive chiaramente il rapporto di potere tra uomo e uomo.
In La Cravate ancora non troviamo quello shock visivo che più avanti si manifesterà in altre grandi opere surrealiste del regista cileno quali Fando y Lis, El Topo, The Holy Mountain e Santa Sangre. Riconosciamo però già in questo contesto i suoi segnali, la sua predilezione, profondamente riuscita, nell’abbattere la censura logica della coscienza e la sua intima soggettività che nasce dalla necessità di elaborare una forma d’arte che abbia come fine la guarigione.
VOTO: 7/10
Realizzazione: Saul Gilbert, Alejandro Jodorowsky, Ruth Michelly
Musica : Alejandro Jodorowsky e Fernando Arrabal (dall’omonima pièce di Arrabal)
Fotografia: Edgar Bischoff
Cast: Denise Brossot, Roland Polya, Alejandro Jodorowsky, Saul Gilbert, Raymond Devos
Francia, 1957