I MIEI PENSIERI PERDUTI – Dennis Cooper
Dennis Cooper fa ricorso a tutti i suoi temi più cari e noti (sesso, sadismo, incesto, pazzia, omicidi), per montare un libro completo e maturo, dalle tematiche scottanti che si riversano come lava bollente sul lettore. I miei pensieri perduti, una sorta di inno alla follia.
La trama è confusa, frammentaria, allucinata: Larry ha una fidanzata, Jude, che pensa che lui sia gay. Larry non vuole esserlo. Rand, il suo migliore amico, gli mostra una foto del fratellino nudo e Larry, in uno scatto idrofobo e incontrollato di rabbia, lo picchia fino ad ucciderlo. Una catena di eventi si dipana, incrocia, corre parallela e si sgretola lungo le pagine del romanzo, ma raccontar tutto ha senso solo fino a un certo punto; quello che conta è l’angoscia che ne pervade tutte le righe, l’insopprimibile sensazione di essere chiusi in una scatola … una scatola piccolissima, dalla quale evadere è impossibile. Descritto più volte come il romanzo “sulla generazione cresciuta all’ombra della strage di Columbine”, I miei pensieri perduti è questo ma molto altro ancora.
Cooper ci parla di un mondo che sembrerebbe lontano, lontanissimo, distante anni luce, immaginario se non ne sentissimo parlare alla tv o nei giornali di tanto in tanto, eppure non fa altro che parlare di ragazzi e delle loro paure, dei loro bisogni, delle loro angosce. Le scene che Cooper ci mette davanti sono raccapriccianti, non solo per quello che descrivono, per la crudezza esasperata, grondante sangue, a cui si deve sottostare ma, soprattutto, per i mondi interiori che queste scene si portano dietro, mondi di ragazzi dai tredici ai diciotto anni, adolescenti o poco più, e tutto quello che sono costretti a portare, nascosto dentro di sé. Gli adulti, in tutto questo, rimangono sempre sullo sfondo: figure incapaci di capire, incapaci di sentire, perse nell’alcol, nell’indifferenza reciproca.
La violenza diventa l’unico modo attraverso il quale dare senso alla vita. Se non si può essere amati, se non si può trovare pace negli altri, tanto vale degradare se stessi alla stregua di oggetti. Non ci si prostituisce per soldi, nei libri di Cooper; i suoi adolescenti lo fanno perché sentirsi oggetti nelle mani altrui è l’unico modo che conoscono per essere, per provare ad esistere. Vite che non sanno in che direzione incanalarsi, una vacuità esasperante di senso in ogni dove. Labirinti senza vie d’uscita.
Cooper ci parla di tutto questo e, sembra impossibile da credere, ma il suo tratto distintivo, quel quid ravvisabile in ogni sua opera (e più di tutte in questa), rimane sempre l’estrema dolcezza con la quale ci racconta le storie. Tra omicidi, inculate, rabbia, odio, la dolcezza con la quale Cooper guarda ai suoi personaggi emerge da ogni singola pagina. Certo, si potrebbe accusare l’autore di un’eccessiva ripetitività nel corpus delle sue opere e anche all’interno dello stesso libro, e la critica, per quanto veritiera, non minerebbe di un millesimo la bellezza di questo e di altri libri dell’americano. Perché il mood ossessivo e straniante, ripetitivo e martellante, rende questo autore, ogni suo libro, quello che è: un immenso agglomerato di malinconica tristezza, di morbosa dolcezza.
E Cooper, non contento di averci regalato scorci così terribili e veri, scrive anche uno dei finali più belli e potenti di tutta la letteratura contemporanea, talmente triste da portare alle lacrime. Un libro bellissimo, terribilmente imperfetto, eppure devastante nella sua estrema sincerità.