DYLAN DOG: IL TRILLO DEL DIAVOLO – Roberto D’Antona
Ci vuole una buona dose di coraggio per assumersi la responsabilità di maneggiare il mito dylandoghiano. È ancora nella memoria di tutti, infatti, la (quasi) unanime crocifissione in sala mensa toccata a Kevin Munroe, regista di quell’americanissimo Dylan Dog – Dead Of Night che, snaturando parecchi aspetti della tradizione sclaviana, ha fatto inviperire gli irriducibili dell’Old Boy.
Il film, più infedele che brutto, ha lasciato libero spazio alle fantasie e agli aleatori “dovevano farlo così” di tutti noi; Roberto D’Antona, tarantino ventenne, dà un seguito al suo precedente Dylan Dog – L’Inizio e (ri)rova a colmare le lacune a stelle e striscie con il suo DD molto più nostrano (a partire dalla dizione), meno palestrato e gradevolmente introspettivo. Dylan Dog: Il Trillo Del Diavolo, questo il titolo del nuovo lavoro, è un mediometraggio di circa 50 minuti che, per dirla alla Stanis La Rochelle, “è molto italiano e molto poco anglosassone”. Un bene o un male? Vediamo.
Prima di tutto, i fatti: l’Indagatore Dell’Incubo viene trascinato in un viaggio onirico, che richiama esplicitamente quello dantesco, dove incontra volti noti (dal fidato assistente Groucho, al saggio Bloch, fino ad alcuni noti antagonisti) che lo condurranno per mano verso una verità cupa e difficile da accettare, che cambierà la vita dell’old boy e ne metterà a repentaglio l’integrità fisica e, soprattutto, mentale. Lo spaccato della vita di Dylan non è fatto di peripezie e combattimenti (meglio, perché è proprio negli sparuti momenti “action” che l’asinello di D’Antona casca un po’), ma di animi tormentati, passato oscuro e la necessità di risolvere il proprio “caso” ancor prima di quelli dei clienti. Molto italiano, dicevamo. A volte croce, con marcati accenti regionali che tolgono un po’ d’atmosfera british e uscite un po’ troppo posticce (“vuoi venire con me SULLA SCENA DEL DELITTO?”), altre delizia, con uno script che va al cuore dell’Indagatore e regia & fotografia perfette per scaraventare chi guarda in un mondo fatto di brutti sogni, di (s)perdute autoconsapevolezze e di frammentazione emotiva.
Questo Dylan (interpretato dallo stesso D’Antona) battibecca meravigliosamente con un Groucho in formissima (Francesco Emulo) mentre è alla ricerca di se stesso, in un infinito tragitto into the wild da far invidia a Frodo Baggins, portandosi dietro quel po’ di perenne e tanto seducente disagio interiore, tanto caro ai lettori (ma soprattutto alle lettrici) del fumetto; la caratterizzazione del personaggio, favolosa sul versante “maledetto”, perde di vista il lato loser ed autoironico del Dylan di Sclavi, che in alcuni momenti è sicuramente più Stallone che Everett. Zoppia veniale, un po’ più stridente la scelta di ricorrere ad alcuni momenti di comicità al chilo (la ginocchiata nei gioiellini di Groucho voleva essere Marxiana, forse, ma risulta molto più vanziniana) per stemperare la tensione, del tutto superflui.
Alti e bassi dunque, in un’opera di un regista giovanissimo e, come si diceva in apertura, coraggioso ed “innamorato”. Dylan, pur con difettini, rivive e si spinge più in profondità di quanto abbia fatto Hollywood. Questo Dylan trasuda passione più che testosterone. E’ già qualcosa.