A SNAKE OF JUNE – Shinya Tsukamoto
Durante le piogge di Giugno, Rinko, assistente psichiatrica telefonica, riceve per posta un plico contenente foto che la ritraggono in sequenze autoerotiche. Nel secondo pacco ricevuto, Rinko trova anche un cellulare e riceve la telefonata di un vecchio paziente del centro, che vuole spingerla a liberarsi dei suoi tabù sessuali, minacciando di mostrare le foto al suo anziano marito. Lo scopo dell’uomo è di salvare la donna da sé stessa, restituendole il favore che lei aveva fatto a lui, salvandolo a sua volta dal suicidio.
Risale al 2002 questo lavoro di Shinya Tsukamoto che ha conquistato il diritto di passare nelle sale italiane, dopo esser stato presentato a Venezia nello stesso anno, venendo premiato col il Premio Speciale della Giuria. Il film, della durata di 77 minuti, è girato in bianco e nero virato blu, anche se alcuni elementi, come le ortensie e l’acqua, vengono davvero “tinte” di un colore bluastro. Nonostante le premesse e la tecnica cinematografica indiscutibilmente magistrale, è meglio chiarire che non si tratta di un capolavoro, di quelli che tengono incollati alla sedia e che tarda ad uscire dalla testa per giorni; anzi, spesso prevale il senso di deja-vu per via di una trama troppo ovvia e, a volte, senza un vero mordente.
Tuttavia l’importanza di questa pellicola è da ricercarsi altrove. A Snake of June è un film forse seminale per la simbologia che utilizza: il mese delle piogge, l’inquadratura della chiocciola con i suoi occhi lunghi come l’obiettivo del fotografo ricattatore (che a sua volta è il serpente del titolo) che striscia nei segreti intimi di Rinko mostrandole la realtà. Un film non può però fare scuola solo di simbologia e così Tsukamoto strizza l’occhio (volontariamente o no) a David Cronenberg ed alla sua dissezione chirurgica del corpo, ossessione continua e drammatica, prima che inquietudine horrorifica. Splendida è la parabola sulla malattia e la trasfigurazione corporea/mentale che offrono uno squarcio di luce in una spirale di avvolgente angoscia.
Se abbiamo parlato di tecnica, non possiamo non citare le inquadrature, che presentano l’occhio voyeuristico del fotografo, anche quando costui è lontano dalla scena, ricreando la sensazione che Rinko (e quindi lo spettatore) sia costantemente sotto lo sguardo oppressivo del proprio subconscio, che ha già germogliato il seme della propria emancipazione sessuale e vitale. Fotografia bellissima e intensa, come già citata, non solo per la scelta dei colori, ma per le luci e per la grana riprodotta.
Un film da manuale, per moltissimi versi, ma forse l’occasione sprecata di Tsukamoto per sfiorare il capolavoro con una storia migliore.