UN CHANT D’AMOUR – Jean Genet
In una prigione maschile i detenuti soffrono la solitudine. I bisogni sessuali rimbalzano dietro le porte del carcere, i sussurri e i bisbigli, i piccoli fremiti restano rinchiusi in cella, mentre l’occhio del secondino spia e se ne compiace. Desiderio soddisfatto in pochi gesti, in un buco nel muro e in una cannuccia che permette di scambiarsi il fumo di una sigaretta; le finestre sbarrate consentono il passaggio di alcuni fiori, le pareti consentono di sentire la voglia dell’altro.
Un inno all’amore e, nello specifico, all’amore omosessuale, girato nel 1950 da Jean Genet, conosciuto fino a quel momento come scrittore turbolento, ladruncolo e vagabondo. La sua vita, raccontataci da lui stesso nei Diario del Ladro, è fatta di espedienti, avventure, furti e romanzi. Romanzi, rubati, letti e scritti.
Jean Genet è figlio indesiderato, viene dato in adozione e, benché trovi un ambiente sano e amorevole, a soli 10 anni comincia a sentirsi irrequieto. Chierichetto (è sospetto come l’ambiente ecclesiastico ritorni sempre in personaggi di tal guisa) disciplinato e ben educato, sente crescere l’impulso della ribellione che lo portano ad affrontare i primi furti, mentre altrettanto rapidamente crescono i primi pruriti omosessuali. Lascia paese e famiglia, vaga tra piccoli lavori (troncati sempre a causa dei suoi modi) finché non decide di arruolarsi nella Legione straniera. L’Africa lo colpisce: la gente è passionale, vibrante, lotta con impeto contro la forza colonizzatrice francese. Tornato a Parigi finisce spesso in prigione, ma Genet vede le punizioni per le sue malefatte come un’esaltazione delle stesse, e la stessa sensazione aveva fin da bambino quando nella sofferenza delle vergate vedeva una fonte estatica che ne sublimava le azioni. Inquieto e irrequieto, rubava per distinguersi dagli altri, e continuò a farlo finché si rese conto che il mondo era pieno di furfanti e ladri.
Il suo comportamento lo isolava dagli altri e, pur soffrendo molto per la sua solitudine, in un certo senso la cercava in un circolo vizioso dal quale era incapace di uscire. La prigione dal quale entrava e usciva divenne una fonte di ispirazione; era l’ambiente adatto dove partorire i suoi scritti, le sue memorie. Divenne drammaturgo, ma i suoi capolavori restano i romanzi. Tutti puntualmente censurati, tacciati di pornografia, giravano sottobanco. Per un certo periodo si dedicò alle lotte politiche schierandosi con gli oppressi, con la classe più debole, con gli emarginati. Di fronte a una società benpensante e perbenista divenne egli stesso emarginato.
Nel 1950 gira Chant d’Amour. Il Diario era già stato scritto e Jean Genet decide di mettere in video il suo pensiero. Non è l’unica sua opera a sfondo omosessuale o che esalti l’omosessualità, ma questo corto è l’unico di Genet nonché uno dei primi film a sfondo omoerotico. Ovviamente censurato, fu diffuso illegalmente nell’ambiente dell’ underground.
“L’abito dei forzati è a righe bianche e rosa. Ebbene, uno stretto rapporto esiste tra i fiori e gli ergastolani. La fragilità, la delicatezza dei primi sono della medesima natura della brutale insensibilità dei secondi. Ch’io abbia da raffigurare un forzato – o un criminale, – sempre lo coprirò di tanti e tanti fiori ch’esso, scomparendovi sotto, ne diventerà un altro gigantesco, nuovo.” Questo è l’incipit del suo Diario del Ladro e qui si trova sintetizzato il messaggio del corto. Uomini, criminali, ma capaci di amare e di desiderare, i prigionieri vivono la loro sessualità come possibile in una cella, strusciandosi contro il muro o sul letto, ballando e trovando piacere nel farsi guardare o nel guardare e frustare. La realtà si fonde con il sogno e, in un momento onirico, due prigionieri trovano la libertà nel toccarsi, nel respirarsi, nel fare l’amore.
Un chant d’amour, una canzone d’amore, in prigione. Nessun dialogo, nessuno parla con nessuno, eppure in questi ventisei minuti si comunica molto. La telecamera entra in carcere in punta di piedi, così come il secondino, e anche il regista libera il suo impulso voyeuristico. Gli attori sono senza esperienza cinematografica, si muovono con naturalezza, e il regista si compiace di trovare virilità istinto in questi uomini. Anche nella scena pastorale, tra giochi e carezze bucoliche, il regista lascia emergere la rozzezza dei protagonisti senza limare alcuna volgarità. Volgarità che, nonostante gli organi genitali in vista e la pura tematica masturbatoria, è difficile da tacciare come puramente pornografica. Un prigioniero cerca il contatto con l’altro, cerca un segno d’amore in un gelido anfratto dove i piccoli contatti sono modi per sentirsi meno soli.