THE KILLING – Season 3
Seattle è una città pericolosa. Il ghetto pullula di una varietà di specie umane in cerca di un posto dove rifugiarsi, di viatici artificiali per dimenticare e di modi rapidi di infilare in tasca qualche dollaro. Una linea di marciume che separa la vita dalla morte, un cumulo di terriccio striato lungo pantaloni troppo abituati a poggiarsi su strade dimenticate dal mondo. Un adescatore di ragazzine senzacasa, senzatetto, senzafamiglia o (peggio) con famiglia disinteressata.
Un uomo che porta la morte, una scia di cadaveri ritrovati in un laghetto, corpi galleggianti apparentemente richiamanti un caso chiuso dalla detective Sarah Linden (Mireille Enos), un passato che riaffiora ed un presente che non sembra voler trovare pace. Sarà la donna, insieme al partner Stephen Holder (Joel Kinnaman), a scavare nell’immoralità di una città che sembra aver perso la propria identità (o forse che l’ha sempre avuta), in cerca dell’assassino.
Dopo due stagioni concentrate sull’omicidio di Rosie Larsen, la terza stagione di The Killing si riallaccia attraverso il passato di Linden, un omicidio dall’assassino incerto che torna prepotentemente per sfregiare ulteriormente la sua fragilità. Stavolta The Killing allarga il respiro, non concentrandosi sui soli Linden e Holder, mostrando una coralità di anime in pena, cuori che battono all’impazzata nel buio della notte. La vicenda decostituisce la finta normalità che si era costruita senza convinzione Linden, raschia con furore l’apparente tranquillità familiare di Holder, ci rinchiude dentro il braccio della morte con Seward accompagnandoci sino al tremore delle membra i minuti prima dell’impiccagione, spezza il legame del tenente Skinner, ci lascia camminare nei ghetti dove le adolescenti Bullet, Lyric e Kallie vivono di sorprusi, dischiudono la porta della solitudine della madre di Kallie, ci lasciano sbirciare dietro il paravento del pastore Mike e ci fanno sospettare dell’apparente menefreghismo di Reddick.
Seattle, ancora una volta, diviene metafora di luogo dove abbandonarsi, ineluttabile crogiolo di buio, culla dove dondolare insieme alle più recondite paure. The Killing, stavolta, pone molta meno attenzione allo svolgersi delle indagini rispetto alle precedenti serie, mantenendo sì focus sui casi che si intrecciano ma puntando tutto sull’evoluzione dei personaggi. L’incursione nelle loro vite, l’aprire armadi maleodoranti ricolmi di scheletri e ragnatele, il fatto di osservarli da lontano come da vicino diviene il cuore di questa terza stagione. Sotto quest’ottica si può perdonare un finale improvviso, sotto certi versi affrettato (o totalmente aperto verso le evoluzioni di una prossima stagione). Se un’altra annata vi sarà, gli effetti sui protagonisti saranno devastanti.
La terza stagione di The Killing si impone come uno tra i migliori serial dell’anno, un torbido anfratto dove tutti sono malvagi, tutto è marcio, una desolante certezza di non poter trovare fonte di luce in un buio che la inghiotte. Lucidamente impressionante nella sua feroce rappresentazione di una realtà meschina … ma attuale. Cult.