THE INLAND EMPIRE – David Lynch
Una giovane donna innamorata si trova improvvisamente in pericolo, chiusa tra le spirali di un cupo destino in una vallata situata all’ingresso di Los Angeles. Un attore riesce ad ottenere un importante ruolo in una grande produzione e si dedica alla caratterizzazione del gentiluomo del sud che dovrà interpretare. Entrambi sono ignari del futuro intrecciarsi delle loro vite.
Nuovo capitolo targato Lynch e nuova spaccatura tra il pubblico, fan inclusi. Di solito il regista americano o lo si odia o lo si ama, non esiste alcuna via di mezzo; io ho sempre affollato la seconda schiera ma stavolta, con Inland Empire, Lynch mette in imbarazzo anche uno dei suoi fedeli sostenitori. Inizio immediatamente col dire che la scelta di girare tutto il film in digitale personalmente risulta comoda (anche a livello di costi) ma assolutamente inefficace: è fastidioso assistere ad immagini così sgranate e traballanti, per non parlare della messa a fuoco e della scarsa resa delle sequenze più movimentate.
Altra nota dolente è la durata. Probabilmente si tratta di una scelta voluta, ma 172 minuti pesano come un macigno, aprendo interrogativi sulla pochezza di idee trasformata in viaggio allucinato e, proprio per questo, sofferto. Inoltre, stavolta come non mai, David Lynch sembra dialogare col pubblico, inserendo commenti rivolti allo spettatore come a volerlo prendere in giro, ma tutto questo fa parte della manfrina. Se avessi dovuto esprimere un giudizio subito dopo essere uscito dal cinema avrei stroncato il film, ma ad un giorno di distanza il disagio, la tensione, il fascino morboso emanati non mi hanno ancora abbandonato, raschiando via il tedio provato durante la lunga visione e questo è sicuramente un sintomo positivo.
Difficilmente dimenticherete le maschere asinine che inscenano una sit-com, i visi deformati e artificiosamente illuminati per espandersi nel buio riempiendo con il loro dolore l’intero schermo, le musiche cupe e angoscianti orchestrate da Angelo Badalamenti e la luce rossa delle lampade che emanano sanguigne effusioni nelle disadorne stanze. Eccezionale la prova degli attori con Laura Dern in testa, coraggiosa la scelta di caratterizzare i suoi personaggi sul filo estremo della credibilità immergendosi nel baratro della follia. Compite il balzo nel nuovo mondo allucinato di Lynch solo se già conoscete il regista, altrimenti vedete prima qualche suo lavoro di durata minore (Strade Perdute o Mulholland Drive per esempio): il rischio che correte è quello di perdervi negli anfratti più reconditi di un ego malato, accartocciandovi nell’angolo più buio della vostra stanza.