TERRAFERMA – Emanuele Crialese
In un’imprecisata isola del Sud Italia, Filippo e il nonno Ernesto escono tutti i giorni per andare a pesca tra limpide acque solcate dal loro barcone. Durante una delle loro uscite si imbattono in un gruppo di persone disperse in mare in seguito ad uno dei viaggi della speranza; tra queste vi è una donna incinta con il figlio. La legge del mare porta Ernesto a non lasciare in acqua le persone, arrivando ad accudirle dentro la propria casa, curati dalla indispettita Giulietta, madre di Filippo.
Al primo approccio, che dura l’ellisse temporale iniziale, quella che finisce con la raccolta dal mare dei profughi, Terraferma evoca atmosfere descritte in molti romanzi, come quelli di Erri De Luca (nonostante la diversa ambientazione): terre circondate dal mare, odore di salsedine, piccole case avvolte dal sole, pescherecci mangiati dalla ruggine, alghe che delicatamente galleggiano, persone che a piedi scalzi colmano lunghe distanze col sorriso sulle labbra. Non vi è nulla da fare, il fascino della nostra terra risulta sempre inarrivabile. Ed è così facile lasciarsi trasportare dalle sensazioni traspiranti dal film di Emanuele Crialese.
Tuttavia la malia inizia a infrangersi contro flutti ben più ostici quando entra in gioco la trama vera e propria. Terraferma vuole raccontare il dramma dei profughi visto attraverso l’occhio di chi ha vissuto tutt’altri tempi (Ernesto), di chi ha paura del presente (Giulietta) e di chi ha totale incertezza nel futuro (Filippo), lasciando filtrare lo sguardo da chi non ha mai saggiato direttamente sulla propria pelle il problema (Maura) e chi, invece, lo saggia tutti i giorni e ha assunto una posizione ben ferma (Nino). Purtroppo questa visione lascia un cono d’ombra a dir poco enorme, in quanto il problema-cuore proposto dal film risulta appena abbozzato, chiaramente tagliato sotto un’unica ottica (dato che il “contraddittorio”, se così vogliamo chiamarlo, di Nino viene affossato dal suo stesso personaggio, poco più di una macchietta) che, oltretutto, risulta cieca da un occhio. Affiancare il desiderio di “terraferma” della donna di colore (che porta in grembo un figlio, perciò il futuro) a quella di Filippo funziona sì poeticamente, risulta perfettamente funzionale nel finale allegorico, ma si scioglie sotto un sole che urge un approfondimento degno di nota.
Pochi personaggi squadrati non riescono a far vivere il dilemma che, inevitabilmente, si insinua dentro tutti noi perché un processo di amore (quello di Ernesto per esempio) o di odio (Nino), non si può e non si deve risolvere in un rapido cambiamento di umore dai toni commoventi (Giulietta), altrimenti si rischia di (s)cadere nel buonismo fine a se stesso. Probabilmente Crialese voleva solo disegnare uno spaccato di una realtà tutt’altro che invisibile, ma da un film come Terraferma candidato per l’Italia agli oscar (ma bocciato), ci si aspettava di più di un insieme di sequenze scontate, in quanto lasciate nelle mani di attori che sono solo degli “attori”, recitando la propria parte cucita loro intorno.
Il dramma e la sofferenza di chi affronta anche anni di viaggio in cerca di una terra promessa, la morte che affligge le stesse persone (emblematicamente d’effetto la scena in cui Filippo colpisce con un remo i profughi che cercano di salire sulla barca), il solitario veleggiare verso orizzonti lontani di chi vive in una terra che ha poco da offrire per poter sopravvivere, il disagio giovanile, lo sguardo apatico, il crollo di un’economia turistica, la nascita di un figlio in territori ostili e la violenza alle donne sono tematiche eccessivamente straripanti … per essere contenuti su un barcone lasciato andare alla deriva. Eccellente tecnicamente, incompleto concettualmente.