SWEENEY TODD – Tim Burton
Una Londra inghiottita dal buio e avviluppata dal fumo nero che balza fuori dai comignoli è quella che accoglie una nave pronta per l’attracco. Su di essa due uomini cantano: uno è il giovane Hope felice di approdare su quella terra dopo prodigiosi viaggi lungo i meridiani del mondo, l’altro è il cupo Mr. Todd la cui estasi è divorata dal desiderio di vendetta.
Egli era un tempo noto come Benjamin Barker, barbiere eccellente, marito devoto e padre orgoglioso. La sua vita luminosa viene rovinata dal vile desiderio del giudice Turpin, bramoso della sua donna e per ottenerla pronto a farlo allontanare da Londra senza motivo. Quindici anni dopo il misfatto, un alone di oscurità opprimente aleggia sopra la mansarda in Fleet Street dove Mr. Todd ritorna al suo mestiere, desideroso di alleviare col sangue del giudice la pena che arde nel cuore.
Tim Burton è un regista capace di ottenere il leone d’oro alla carriera a soli cinquant’anni, autore in grado di creare un trademark come pochissimi altri riescono. Cucirgli dei confini intorno, tuttavia, non è altrettanto scontato. Mentre la fiaba dark (dai toni drammatici) resta il cuore pulsante delle sue composizioni, gli elementi che le gravitano intorno variano in base al suo estro creativo. Sweeney Todd si spinge verso estremi cupi confini che Burton non aveva mai sfiorato prima, tinteggiando quella che sotto alcuni aspetti può sembrare una favola ma che, sia per i toni sia per la messa in scena, non lo è affatto. Certo, lo stile è facilmente riconducibile al regista ma il dramma che irrompe e il sangue che sgorga a fiotti tendono a far dimenticare le ruffianate che Burton diffonde nel corso della pellicola per stemperare la tensione.
Un altro fattore di novità (se escludiamo i siparietti degli umpa lumpa ne La Fabbrica di Cioccolato) risiede nella scelta di affrontare il musical, adattamento della piece teatrale scritta da Stephen Sondheim. Attenzione però, l’intento di Sweeney Todd non si depaupera nel musical, bensì utilizza questo mezzo per enfatizzare determinate situazioni, renderle grottesche o drammatiche ma scivola continuamente nell’introspezione dei caratteri, in quel sotto-mondo marcio e malato che travolge il meccanismo delle partiture che si susseguono e si innesta in un malessere che colpisce in primis Todd, ma che avvolge l’intera Londra disegnata da Dante Ferretti e immersa nell’oscurità dalla fotografia di Dariusz Wolski. Non aspettatevi una colonna sonora scontata, qui i temi si intrecciano poggiandosi quasi integralmente sulle voci dei personaggi, nessun crescendo banale o ritornello catchy.
Fondamentale l’operato del cast, composto dai feticci Johnny Depp (Barker/Todd) e Helena Bonham Carter (Mrs Lovett,) non solo per le ottime prove canore ma anche per la totale compenetrazione con quei caratteri pallidi come fossero morti loro assegnati. Un candore (solo nel colore) cadaverico che stride col buio della città, esseri esangui che recidono la giugulare (Todd) o servono carne umana (Lovett) come per assorbire spiragli di vita loro negata. Trasmutazione da umani compassionevoli in mostri sanguinari che travalicano i limiti della loro rivalsa per passare dall’altro lato della barricata, divenendo essi stessi macchinari marci di una società decadente.