SANGUE – Pippo Delbono
L’Aquila, distrutta dal terremoto, silenziosa e vuota, dimenticata dallo stato. Questo è l’incipit (discutibile) di Sangue, un viaggio in auto con Giovanni Senzani, uno strano incontro tra due persone così diverse, accomunate dai sentimenti provati l’uno verso la mamma, l’altro verso la moglie.
Giovanni Senzani, coinvolto nelle B.R., è un personaggio schietto, cinico, che con naturalezza risponde alle domande più o meno intime del compagno di viaggio. I due hanno in comune più di quanto il regista potesse immaginare all’inizio del documentario, infatti, partita l’idea di un docufilm sulla vita di Sanzani, le donne più importanti per la vita di entrambi i protagonisti vengono a mancare. Difficile per il regista tener fuori dal suo documento un tale dolore, tanto più se si tiene conto che spesso Pippo Delbono ha fatto della propria vita parte primaria delle opere stesse. Senzani ha perso la moglie, una donna forte, che respingeva le idee del marito, profondamente cattolica, non ne condivideva le ideologie ma che, nonostante 23 ani di prigionia, non ha mai abbandonato il consorte. Dall’altro lato c’è Delbono che, in una sconcertante contemporaneità, perde la madre.
I dialoghi si susseguono, vediamo la stessa madre nei giorni subito precedenti alla dipartita, uno stralcio di vita infinito, per il regista eterno. Sangue è un docufilm controverso, che ha destato non poche polemiche per la presenza del brigatista ma che, guardato nella giusta prospettiva, si fonde con un episodio della vita del regista, col suo dolore, con la sua solitudine. Delbono stesso, infatti, afferma di aver portato a termine il film inserendo la morte della madre per poterla in un certo senso guardare, accettarla, per poter superare il dolore, per poter in qualche modo risanare un’anima colpita.
Sangue risulta essere un film delicato ma pesante, girato con tutte le limitatezze di un telefonino, così come nello stile di Delbono, Nonostante la gravità dei temi, è difficile non superare il mio cinismo e non storcere il naso. È vero che ognuno vive il dolore in modo personale, ma la natura intima e intimistica di questo lunghissimo film non può che risultare snervante. Altro elemento urticante è la presenza del centro sventrato della città, L’Aquila, eretta a simbolo: orfana del suo stato come orfano è il regista. Città che appartiene a Delbono come a qualsiasi italiano, L’Aquila viene qui identificata con la morte della madre, raggiungendo un paragone fuori luogo e poco rispettoso per chi ha perso la vita in giovane età tra le macerie, per esempio, rispetto a chi è morto in età avanzata nella tranquillità della propria casa. Non a caso sono piovute in testa a Delbono accuse di mercimonio.