PINOCCHIO – Enzo D’Alò
Un lavoro lungo, impegnativo e tortuoso per il regista di questo Pinocchio, che di nuovo, in realtà, non ha moltissimo. La storia ormai abusata non riesce ad affascinare più come un tempo, lasciando spazio a momenti ricolmi di noia, non mitigati da parentesi nostalgiche e amare.
La rivisitazione del libro di Carlo Collodi è forte di linee pulite ed essenziali, Enzo D’Alò non ricorre al digitale prediligendo una scenografia semplice, disegnata da Lorenzo Menotti, artista in grado di riempire la pellicola di disegni coloratissimi e ipnotici in grado di trasportare il protagonista (e lo spettatore) in un viaggio trascendentale e aleatorio. I toni variano dal vivace al cupo, in base alle emozioni da sottolineare.
Enzo D’Alò, così come Collodi, pone in rilevanza il rapporto tra padre e figlio: la gioia di Geppetto nell’avere un bambino e l’affrontare i conseguenti sacrifici. Geppetto è un padre che si rivede nel figlio, riflettendosi nel suo viso, nei suoi gesti, nei suoi sogni, riversando speranze e rimpianti. I desideri di Geppetto si scontrano con quelli di Pinocchio che, irriverente e disobbediente, non ne comprende i contorni, filando via veloce da avventura ad avventura con la dovuta scorta di bugie.
La vera novità di questo Pinocchio consta proprio nel maggiore approfondimento della vita di Geppetto (in realtà vivace come il figlio) e nella figura della fata turchina, che qui risulta privata dei suoi toni autoritari propendendo verso un aspetto materno. Spicca (e come potrebbe non farlo) la colonna sonora scritta e cantata da Lucio Dalla, che ha anche doppiato uno dei personaggi. Pinocchio di D’Alò merita certo una visione ma, anche se il regista ha smorzato i toni perbenisti dell’originale, soffre di un sapore di naftalina difficile da scrollarsi di dosso.