PARADISE: LOVE – Ulrich Seidl
Teresa è una grassottella cinquantenne austriaca, spesso in disappunto con una figlia (sovrappeso) che indossa le scarpe anche a letto ed è dipendente dal cellulare. Teresa ha come meta del suo viaggio il Kenya. Una terra selvaggia, almeno all’apparenza, dato che si è costruita e sviluppata intorno ad un turismo sessuale pullulante, pieno di domanda e offerta. Teresa statisticamente ricade nella categoria della “domanda”.
“Akuna matata”. Così lo speaker di colore prepara il wording dei turisti in quella landa così simbolicamente distante chiamata Africa. Un non crearsi problemi che sembra instillare sin dall’inizio l’idea della dimenticanza del valore del proprio spirito, di un abbandono dell’amore verso gli altri così come verso se stessi. Quello che trova Teresa, con estrema semplicità (basta pagare), è la mercificazione dei corpi, l’attrattiva di poter interagire e godere di un corpo giovane e aitante come non lo è più il suo (o forse non lo è mai stato).
Lo sguardo di Ulrich Seidl, tuttavia, non vuole soffermarsi sul moralismo dell’abbandono dei proprie membra nelle mani di altri, nessuna ipocrisia. Seidl punta al disamoramento cosmico verso l’amore. Non è un incrocio di parole, è una conditio di cui Teresa prende presto atto.
Paradise: Love, primo capitolo di una trilogia il cui titolo inquadra, appunto, la tematica discussa, raccoglie in geometriche inquadrature i corpi rotondi delle protagoniste, mantenendo una formalità di fondo nei confronti dello spettatore che si sente seduto di fronte ad un palco, e frantumando la sicurezza di un dialogo con l’incrociarsi (forzato) dei corpi. Un’ottima Margarete Tiesel rappresenta con gran stile una femminilità che vuole emergere, un cuore che vuole battere ancora vivacemente. Una donna immersa in un paradiso naturale, in cerca del proprio paradiso personale.