MUFFA – Ali Aydin
Anatolia: sconfinati paesaggi rurali, campagna a perdita d’occhio. Dei ragazzini abbandonano un copertone d’auto incendiato su un tratto di ferrovia. Poco dopo sopraggiunge Basri (Ercan Kesal, Le Tre Scimmie, C’Era Una Volta In Anatolia) e lo rimuove: il suo monotono lavoro è quello di muoversi a piedi per chilometri e controllare che i binari siano sgombri ed in funzione.
E’ l’attività adatta per lui, uomo solitario e taciturno, consumato dal dolore per il distacco dal figlio Seyfi, che diciotto anni prima è stato arrestato per motivi politici, e di cui non ha più alcuna notizia.
E’ proprio l’attesa di nuove informazioni su Seyfi a permettergli di tenere viva la speranza, a motivarlo, a dare un senso alla sua esistenza, sempre più distaccata dal resto della società e da qualsivoglia affetto, anche da chi, come nel caso del pittoresco collega Cemil (unico spunto “leggero” della situazione), le prova tutte per far ridestare l’uomo. L’unica figura con cui si relaziona è un agente della Questura locale (Muhammet Uzuner, C’Era Una Volta In Anatolia) il quale, un giorno come tanti, recupera finalmente degli aggiornamenti sul caso di Seyfi. E’ il desiderato – e nel contempo temuto – crocevia nella vita di Basri, la resa dei conti con le domande che lo hanno tormentato per quasi vent’anni.
Ali Aydin, classe 1981, vive ad Istanbul e Muffa è il suo primo lungometraggio: una gestazione lunghissima (sette anni) ed un ambizioso progetto, quello di raccontare le tragiche conseguenze della repressione politica della Turchia degli anni novanta. Non attraverso gli occhi di una delle “Madri Del Sabato”, che protestavano silenziosamente contro l’arresto dei figli sovversivi, ma attraverso quelli di un padre solo e disperato, sopraffatto e divorato dalla perdita dell’unico figlio, senza nemmeno la certezza della sua morte, un cadavere, un segno tangibile da seppellire e una tomba visitare. La scelta del protagonista, spiegata dallo stesso giovane autore, è dovuta alla volontà di “porre una distanza tra il pubblico ed il film ed evitare che emergano sentimenti di compassione”.
In realtà Muffa si configura proprio come un compassionevole accompagnamento alla tragica vita di Basri, interpretato da un bravissimo attore (già ammirato nei due lavori del connazionale ed affermato Nuri Birge Ceylan) che impregna lo schermo di sofferenza e perdizione mentale.
Le lunghe e statiche sequenze orchestrate da Aydin sono spesso esasperanti nella loro immobilità e di difficile digestione; sebbene funzionali all’empatica desolatezza, mettono a dura prova l’attenzione dello spettatore, soprattutto di quello che sposa il pensiero caciarone di Michael Bay e dintorni. Resistendo allo sbadiglio (inevitabile, qua e là), immergendosi nel dramma del protagonista e nell’angosciante situazione rappresentata, in cambio giunge la gratificazione di un climax emozionante ed un film che, dopo giorni e settimane, “invecchia” bene nella mente e nel cuore di chi si è avvicinato alla vicenda.
Lungi da chi si aspetta azione, dinamismo e coinvolgenti sviluppi di trama, Aydin rallenta i movimenti di ed in camera, fino all’estremo. Muffa è quasi una diapositiva, uno scorcio dell’anima immobilizzata ed inaridita di un uomo perduto. Sono aridi anche i brulli panorami dell’Anatolia, già ammirati di recente nella sopraccitata opera di Ceylan, una cornice con vita propria, la rappresentazione naturale della solitudine e, in estremo, dell’alienazione. Il girovagare giornaliero di Basri, lungo i binari, è metafora del suo groviglio mentale, in cui la speranza cala giorno dopo giorno per lasciare spazio alla disperazione. Solo nella meravigliosa sequenza finale, il protagonista risolve le sue pene con un viaggio nella caotica Istanbul. Ma anche lì, il movimento attorno non lo contagia. E’ un corpo estraneo a tutto il mondo. Ma non al film, di cui diventa vivida immagine.
Vincitore del premio per la migliore Opera Prima a Venezia, riconoscimento all’ambizioso Aydin e alla sua sfida-denuncia in slow-motion. Lenta bellezza.