MOONRISE KINGDOM – Wes Anderson
Sarebbe sufficiente l’incantevole sequenza di apertura che accompagna i titoli di testa ad elevare Moonrise Kingdom, almeno dal punto di vista visivo e registico, ampiamente al di sopra della media di quello che il cinema odierno può offrire.
E a ricondurre il film – selezionato come pellicola d’apertura a Cannes 2012 – al proprio inventore, lo statunitense Wes Anderson (I Tenenbaum, Fantastic Mr Fox). Il termine utilizzato non è casuale, perché il regista e sceneggiatore di Houston si conferma sempre più giocoliere di un tipo di cinema creativo e personalissimo, che si affaccia tanto alla commedia quanto al dramma, restando tuttavia equi-(e molto)distante dalla rigidità dei generi.
Non fa eccezione Moonrise Kingdom, stralunata love-story di due teenagers, l’uno timido boyscout l’altra sognante lettrice che, in un’affascinante New England del 1965, si danno alla macchia abbandonando i propri genitori e superiori in una scombinatissima fuga d’amore; sulle loro tracce viene sguinzagliata una carovana di surreali personaggi che danno ad Anderson l’opportunità di dimostrare la sua proverbiale e ineguagliabile abilità di caratterizzazione e di cura scenografica.
Tra un capo scout impacciato e metodico (un redivivo Edward Norton), una zelante ed insopportabile assistente sociale (Tilda Swinton), un paterno agente di polizia (Bruce Willis) e un rigoroso padre di famiglia (Bill Murray), ogni presenza umana sullo schermo è linfa al servizio dello stile del regista, che conferma ancora una volta un estro troppo dilagante per rimanere nel kindergarten del cinema indipendente. Vecchi feticci e nuove scommesse del regista si amalgamano in un cast eccellente dove è impossibile estrapolare un “più” o un “meno”, una costellazione di grandi attori compresi quelli che (purtroppo) figurano in un pugno di inquadrature, come l’immancabile Jason Schwartzman o l’esilarante scout veterano Harvey Keitel.
Troppo amara e disillusa per essere una pura commedia, ma con il trasversale e infiammato humour a stemperare i momenti cupi, la scappatella di Sam (Jared Gilman) e Suzy (Kara Hayward) ha la tenera illegalità di Harold & Maude, la fuga da due vite diverse ma ugualmente soffocate da dettami e regimi inaccettabili. L’inseparabile binocolo della giovane diventa così un mezzo per vedere le cose lontane come fossero più vicine: come la libertà, l’amore o forse ancor di più la realizzazione di se stessi. Un potere magico.
E quando i due convincenti piccoli protagonisti si scambiano un divertentissimo e goffo primo bacio, nella cornice di suoni e colori maniacalmente curata da Anderson, è chiara la chiave di lettura che fa da spartiacque fra i cultori e gli oppositori di Wes, raccontatore di favole variopinte sempre più distaccate dal realismo ma non per questo distaccate dai problemi umani. Tutti, in qualche modo, soffrono; la famiglia torna ad essere crocevia di sofferenze, di rapporti che muoiono o che risorgono, le imprevedibili alleanze assumono i connotati di deus ex machina che riporta la quiete in un formicaio di umane incomprensioni.
La mano di Anderson è perfetta in ogni sua mossa, dalla regia che si muove come un pennello che anticipa la tela al soave racconto (aperto e chiuso in poco più di 90 minuti), dalle musiche (imponente valore aggiunto) alla suggestiva fotografia che trascina nel lato più pittoresco della provincia statunitense nei 60s. Moonrise Kingdom è una pellicola di valore assoluto, commovente e divertente, di un autore che, come già detto, meriterebbe rose rosse anche al di fuori di logiche e filosofie da Sundance. O magari Wes di uscire dal suo parco giochi non ci pensa nemmeno, così come chi (senza fretta di crescere) si gode ogni fotogramma dei suoi sognanti racconti.