MARTHA MARCY MAY MARLENE – Sean Durkin
Per Martha (Elizabeth Olsen) l’incontro con sua sorella Lucy (Sarah Paulson) è tutt’altro che facile; fuggita da una comune hippie del XXI secolo deve ritornare alla vita normale e ripercorrere come un nastro mandato indietro alla moviola ogni fase del percorso di “purificazione” attraversato in due anni. I tempi dettati dal regista Sean Durkin sono quelli reali, fattore che destabilizza il pubblico abituato al montaggio serrato dei prodotti cinematografici odierni.
L’effetto finale che si ottiene è quello di rendere onirica tutta la dimensione vissuta dai protagonisti. Martha si trova in uno stato di limbo, ogni sensazione perciò viene falsata, ogni sentimento è come un petalo di fiori che una volta toccato inevitabilmente appassisce. Martha non è in grado di discernere tra sogno e ricordo, Lucy si trova in uno stato di turbamento perché vorrebbe capire il passato tormentato della sorella minore purtroppo senza buon esito, ottenendo come effetto solo quello di coinvolgere in questo turbine il compagno Ted (Hugh Dancy) con il quale vuole coronare il sogno di avere un bambino.
Durante la permanenza di Martha nella loro residenza estiva escono fuori vecchi ricordi, discorsi lasciati a metà e risentimenti troppo a lungo covati e poi lasciati nel dimenticatoio. Tutto questo flusso di emozioni viene falsato dalla lente dell’estraneazione di Martha che nella comune ha trovato un posto, una collocazione, ha trovato delle persone che non l’hanno giudicata, etichettata o le hanno indicato il modello comportamentale giusto. Allo stesso tempo, però, si accorge che il periodo passato in quella microsocietà le ha fatto perdere il contatto con la terra, con le sue radici e un essere umano senza passato non può avere un futuro ma vive alla giornata … galleggia.
Vedendo questa pellicola di 102 minuti la mente è volata a The Manson family che già allora gettava una luce sulle comunità hippie anni ’60 sfatandone il mito. Queste comunità, anche se fondate su principi condivisibili, non sono riuscite a reggere la prova del tempo perché, sostanzialmente, fondate sull’estraneamento della persona come forma di lotta, di alternativa ad una società che tutto è fuorché vicina ai bisogni dell’uomo. Vivere ai margini della società non vuol dire annullarla o cambiarla, negarla genera solo l’illusione di essere indipendente da essa e l’errore è proprio quello di giudicare dall’alto di una perfezione anelata ma mai raggiunta. Nel film la rottura di questa illusione è rappresentata nel momento in cui i ragazzi non potendo più sostenersi con la sola agricoltura decidono di rapinare a campione qualche casa nei paraggi. Improvvisamente anche questo fiore perfetto, splendente comincia ad appassire nella mente di Martha e il culmine avviene quando questa diventa testimone di un omicidio.
Senza scadere nel moralismo questa pellicola vuole esaminare il distacco estremo di Martha forgiando lo stesso con un’estetica formidabile, aiutando la narrazione con un linguaggio ricco di ellissi temporali che rendono vivida la dimensione senza tempo della protagonista. Passato e presente sono fusi tra loro, ricordo e sogno sono la stessa cosa e la morte è impossibile perché essa perde di significato se la vita non è un’esperienza cognitiva vissuta al pieno delle possibilità.