L’INTERVALLO – Leonardo Di Costanzo
Può un’opera d’arte fare dell’assenza di morale la propria forza? Può un racconto non condurre ad alcun colpo di scena, ad alcun insegnamento “scolastico”, schivare il meccanismo del lieto fine o del suo contrario, eppure aprire a infinite riflessioni?
La trasposizione cinematografica di Gomorra, best seller di Roberto Saviano, ritrasse il fenomeno della camorra anche nelle sue pieghe meno scenografiche ed esplicite, descrivendo la lenta erosione del tessuto sociale ad opera della criminalità organizzata.
L’Intervallo, primo film di “finzione” di Leonardo Di Costanzo (tra i suoi documentari, il suggestivo Cadenza D’Inganno raccontava l’adolescenza del dodicenne Antonio vissuta in un quartiere popolare di Napoli), non avrà forse l’impatto tellurico del lavoro di Saviano, ma ha il merito di parlare del fenomeno camorristico in maniera altrettanto realistica (o meglio, reale) e dei suoi effetti contaminanti sulle vicende quotidiane di persone comuni. Tutto ha inizio infatti quando il goffo diciassettenne Salvatore (Alessio Gallo) lascia il suo lavoro quotidiano, il venditore di granite, per raggiungere uno stabile dismesso ed abbandonato dove trova Veronica (Francesca Riso), quindici anni e uno sgradito ruolo di prigioniera cucito addosso. Salvatore la deve sorvegliare a tempo indeterminato e per conto di terzi. La loro convivenza forzata è appesantita da alcuni dubbi: chi vuole tenere in stallo Veronica? Qual è la colpa della ragazza? E come conciliare la sua personalità esuberante con quella remissiva ed introversa del suo carceriere?
Le domande trovano risposta minuto dopo minuto, ora dopo ora, lei e lui si conoscono, socializzano ma non troppo, lo sviluppo di un’intesa fra i due è scontata, il modo e le sussurrate emozioni che lo dirigono, invece, no. E le stesse domande insinuano scena dopo scena la minaccia esterna, un mondo spietato con radicate logiche criminali che Salvatore e Veronica conoscono, ma non comprendono: sono pedine, con ruoli diversi, di uno scacchiere di potere e sgarri da malavita.
Il realismo estenuante del film di Di Costanzo, dal dialetto partenopeo alla mancanza più completa di orpelli, è fondamentale: ci sono due ragazzini, in un edificio spoglio, enorme e “maledetto” (l’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli), che attendono le rispettive sorti e ingannano l’attesa con fantasia e creatività nonostante la spada di Damocle appesa sopra di loro. Riso & Gallo (non è pubblicità occulta), scelti attraverso un laboratorio di coaching per recitazione improvvisata su territorio napoletano, sono un inno alla naturalezza, con una costante ombra negli occhi, come se interpretassero un ruolo tutt’altro che estraneo. Di Costanzo li accompagna con discrezione, il co-sceneggiatore Maurizio Braucci (anche curatore dello script di Gomorra) dice di aver voluto “scrivere una storia che raccontasse l’impossibilità di vita di questi ragazzi”.
E fino all’ultimo minuto, questa impossibilità che ingabbia più della prigionia “formale” si fa ingombrante culminando in una chiusura di film psicologicamente spietata. E allora sorgono due riflessioni: la prima è che L’Intervallo non sia poi così fiction, la seconda è che una morale nel racconto di due ragazzi stremati dalle manovre camorristiche non la si deve per forza trovare. Come, a volte, non la si trova nella realtà e nei suoi spaccati, uno dei quali è mestamente (ma meravigliosamente) narrato dalla pellicola.