LA CITTA’ PROIBITA – Gabriele Mainetti
I film di Mainetti sono attesi sempre con grande entusiasmo sia dal pubblico che dalla critica perché, fino ad ora, è sempre stato in grado di stupire reinterpretando Roma e la romanità , mischiandola con i generi che tanto ama. Per La città proibita ha scelto il genere Kung fu movie, rigorosamente all’amatriciana!
Si parte da lontano, molto lontano: la Cina! Con la sua legge che, fino al 2013, obbligava ogni famiglia ad avere un solo figlio. Facciamo la conoscenza della piccola Mei, costretta a nascondersi dai controlli del regime proprio in virtù di questa legge, essendo secondogenita. Una volta cresciuta, decide di recarsi nella capitale nostrana per cercare sua sorella maggiore, di cui non si hanno più notizie.
Arrivata qui, fa la conoscenza di Marcello, un ragazzo che lavora nel ristorante di famiglia insieme a sua madre e che, un po’ per necessità , un po’ per difendersi dal mondo esterno, ha passato praticamente tutta la sua esistenza all’interno della cucina.
Oriente e Occidente si incontrano e si scontrano in questa Roma multietnica, sgangherata ma molto colorata, in quel microcosmo che è Piazza Vittorio Emanuele (per chi non fosse di Roma), la Chinatown della Capitale. L’impianto è molto semplice e diretto, come è giusto che sia: tanta azione, tanti combattimenti, tanta coreografia… insomma, tante botte!
E questo va benissimo, anche perché l’attrice che interpreta Mei è prima di tutto una stunt bravissima.
Mainetti, però, è riuscito anche a cogliere alcune fragilità di lei, cercando di portarle sul grande schermo. Abbiamo quindi una prima parte in cui praticamente non si parla, se non il giusto per delineare i tratti salienti della trama e dei personaggi, e una seconda parte in cui lo spettatore viene a conoscenza del mistero dietro i due giovani e la loro storia d’amore. È nella seconda parte che si ravvisa una maggiore debolezza nell’impianto narrativo, dove appunto bisogna costruire il rapporto d’amore tra i due e creare una chiusa degna della trama.
Anche il personaggio di Giallini, che ha un ruolo determinante nella narrazione, forse meritava una chiusa migliore. Insomma, Mainetti si conferma un regista con tanto cuore (soprattutto per la sua Roma) e tanta abilità tecnica. E forse questi due elementi, insieme a un certo equilibrio nel dosarli, sono stati la chiave del suo successo e gli hanno permesso di far breccia nel cuore del pubblico.
Questo film presenta gli stessi difetti dei due precedenti, che forse a questo punto vogliono essere parte della sua cifra stilistica: un profondo legame con le sue radici (quindi poco internazionale) e una certa sgrammaticatura nel raccontare le sue storie. Di più non è il caso di dire: ognuno dovrebbe vedere questo lavoro sul grande schermo e farsi la propria personalissima opinione. Comunque, il prodotto rimane di ottima fattura.
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