IL PROFUMO DELLA SIGNORA IN NERO – Francesco Barilli
In una assolata, estiva, misteriosa, affascinante Roma, Francesco Barilli inscena un thriller/horror di straordinaria lucidità. Quando il finale ci svela un complotto ai danni della protagonista, ordito da una setta praticante magia nera, lo spettatore finisce per sentirsi ingenuo e disattento.
Barilli difatti, in una sceneggiatura dal ritmo e dalla metrica perfetti, infila secondo dopo secondo frasi, pensieri, suggestioni simboliche, che “raccontano” nel dettaglio l’intero sviluppo della storia, anticipandolo. L’orrore non si nasconde in viottoli lugubri, in volti sconosciuti o anfratti tetri, come nel più classico horror gotico italiano. No, il pericolo si cela in luoghi familiari, apparentemente ameni, nei confortanti volti dei vicini di casa, nel fidanzato, negli amici di sempre. Ma è soprattutto la propria mente a divenire scenario di una nemesi angosciante, dove le proprie paure infantili, i piccoli traumi di una vita normale, si trasformano in una prigione, un cubicolo infernale capace di portare alla follia e alla morte.
Quando a film concluso ce ne rendiamo conto è inevitabile cadere nella piccola beffarda trappola preparata ad arte dal regista, ovvero ripercorrere mentalmente il film e rendersi conto che ci era già stato detto tutto. Dopo una manciata di minuti, infatti, troviamo Silvia Hacherman e il fidanzato ospiti a cena di un sociologo africano. Apparentemente è solo un’innocua chiacchierata su magia nera africana, superstizioni, rituali e sacrifici umani. Discussione che però diviene una vera e propria “prolessi” narrativa. Roberto, il fidanzato di Silvia, precisa che certe cose avvengono anche in europa.
Ma è il sociologo stesso a preconizzarci quello che accadrà, lasciando viva la sensazione che non sia un messaggio rivolto alla vittima, bensì all’inconsapevole spettatore: “esistono alcune sette che ogni anno scelgono vittime a loro insaputa. Con fatture terribili e pratiche demoniache la portano alla follia ed alla morte. È una sfida alla morte, all’occulto alle tenebre. E la vittima morirà con un antico sacrificio. Occorre tempo e pazienza per entrare in un cervello. È una prova di forza mentale dell’uomo contro la sua debolezza”.
Ed è proprio a quella debolezza su cui attecchirà la stregoneria messa in atto. Da quel momento in poi, con una lentezza straordinariamente armonica, Silvia Hacherman diventerà vittima della propria mente delle proprie debolezze e delle proprie ossessioni, in una suggestione avvolgente che si insinua sotto la pelle di chi guarda. L’infanzia della piccola Silvia fu contraddistinta da pochi elementi dominanti: un padre idealizzato nella sua assenza per lavoro e l’ossessiva immagine della madre, che si agghinda di un vestito nero, profumandosi ed imbellettandosi per ricevere l’amante. Il trauma recondito della madre a letto con un altro uomo ha tormentato tutta la vita di Silvia, al punto tale da portarla a spingerla giù dal balcone, ammazzandola.
Questa follia avanza per gradini, rispettando il mantra dello stregone-sociologo “ci vuole tempo e pazienza …”. Il percorso progressivo che la porta alla pazzia viene raccontato in un solipsismo caotico ma organizzato, narrato attraverso una triplice proiezione di se stessa. Silvia a tratti è se stessa, a tratti prende l’identità della madre che si riprende cura di un’altra proiezione mentale, ovvero della bambina che segue Silvia ovunque che altri non è che Silvia stessa da piccola. Le prime reazioni di spavento e repulsione verso queste proiezioni, man mano lasciano il posto ad una sorta di complicità omicida tra le varie identità . Fingendo di giocare ad Alice nel paese delle meraviglie Silvia uccide a colpi di mannaia tutti gli elementi di disturbo: il vicino, il fidanzato e soprattutto l’ex amante della madre.
“Cos’altro è la vita se non un sogno?”, sussurra Silvia citando il romanzo di Carroll. Ma la vita non è un sogno e il suo è solo un delirio mentale. Lei non ha ucciso nessuno e finirà per ammazzarsi buttandosi giù dal balcone, pensando di essere sua madre, col suo vestito addosso e la proiezione di se bimba che si lancia dietro di lei.
I prodromi significanti, come premesso, non si limitano solo al livello orale dei protagonisti. La triplice identità della protagonista (madre di Silvia/Silvia adulta/Silvia bambina) viene continuamente richiamata dal motivo ricorrente dello specchio. Lo specchio a tre ante domina la camera di Silvia, restituendoci simbolicamente la frammentazione e la moltiplicazione della sua identità. Ma è nella sequenza dell’incontro con la medium che si raggiunge l’apogeo del simbolismo di questo universo mentale deframmentato. La tappezzeria ci suggestiona con una trama al limite del psichedelico e, con un abile utilizzo degli specchi, l’inquadratura diventa ricorsiva, algoritmica. Un vero e proprio “effetto Droste” alla Escher che permette di vedere l’immagine dentro l’immagine un numero potenzialmente infinito di volte. La stregoneria ormai è stata perpetrata, la mente caotica di Silvia, diviene la vera ambientazione della narrazione.
IL PROFUMO DELLA SIGNORA IN NERO ce lo dice, lo suggerisce e ce lo dipinge, con una coerenza stilistica stupefacente, sparpagliando dettagli, oggetti, fotografie, arredo e sguardi. Come quando Silvia riceve una scatola contenente lo stesso vestito che indossava da bambina, ma non ce n’è uno solo bensì molti. Sempre attraverso lo specchio rivede più volte la madre col vestito nero mentre si profuma. È l’icona cardine che spinge verso l’estremo qualsiasi pulsione della protagonista, e cos’è una fotografia in fondo se non un riflesso di specchio impressionato? La fotografia è quella di lei col padre, quella che gelosamente custodiva nella sua camera, quella che si frantuma quando inizia a prendere forma il maleficio.
Il finale, cruento ed algido, ci racconta l’epilogo del maleficio, con il rituale dello sventramento della vittima e tutti gli adepti che si nutrono dei lacerti del corpo di Silvia. Ci sono tutti: il sociologo, il vicino, la medium, il custode , il fidanzato. Forse è qui la vera differenza tra il regista e i moderni artisti, descrittori di un mondo senza dati di fatto, di volta in volta visto con le lenti di un’alienazione soggettiva e personale. Che si parli di incubi, sogni, amori e illusioni, traumi e angosce, non importa. Barilli svela il giochino, ci fa vedere il trucco compiacendosene , marcando il confine tra dentro/fuori, verità/finzione, soggettivo ed oggettivo. Quello che appunto oggi non farebbero un Lynch, o un Charlie Kaufman, collocati appunto in un post-post-modernismo ove questo confine non è distinguibile, perché non esiste.
Ma stiamo parlando del 1974 e Barilli ha il grande merito di svelare, secondo dopo secondo, una macchina perfetta, un incastro abbagliante, ricco di suggestioni e simbolismi, in un atmosfera familiare ma cupa, in un mondo ricco di vicini, ma segnato dalla solitudine. Silvia Hackermann è l’unica vittima, ma potrebbe accadere lo stesso ad ognuno di noi. Se un giorno doveste svegliarvi inspiegabilmente alle 15 del pomeriggio fate attenzione. Non sarà il vostro fidanzato a tirarvi fuori dai guai.
VOTO: 7.5/10
Regia: Francesco Barilli
Cast: Mario Scaccia, Mimsy Farmer, Maurizio Bonuglia, Orazio Orlando
Produttore: Euro International Film
Musiche: Nicola Piovani
Fotografia: Mario Masini
Italia, 1974