IL PASSATO – Asghar Farhadi
Ahmad (Ali Mossafa), iraniano di Teheran, fa ritorno in Francia per risolvere le pratiche giudiziarie che lo divideranno per sempre dall’ex moglie Marie (Bérénice Bejo, The Artist). Trova una casa folle e affollata, abitata dai figli e dal nuovo compagno della donna. La presenza di Ahmad diviene nello stesso tempo collante e destabilizzante, scava e porta alla luce rivelazioni passate devastanti. Può un divorzio diventare il mezzo per unire? Asghar Farhadi, dopo il successo di Una Separazione (2011), prova a rispondere all’ossimoro.
Lo fa attraverso un racconto drammatico lungo e per certi versi gravoso. Come nei precedenti lavori, Farhadi mette alla prova la caparbietà dello spettatore e lo sfida ad infilarsi fra le pieghe psicologiche dei personaggi e dei legami che essi creano, modellano e distruggono. Emblematico in questo senso è il personaggio della Bejo (premiata a Cannes come migliore attrice): Marie è una donna struggente per noi e per se stessa, tesa fra esasperazione ed infinito amore profuso nel tentativo di tenere insieme la famiglia. Se il catalizzatore degli sviluppi è Ahmad, Marie è lo specchio dei loro esiti.
Quella della signora Hazanavicius è senza dubbio l’interpretazione più toccante e sfaccettata, ma è difficile fare una gerarchia nell’ensemble di altissimo livello. Il cast rasenta la perfezione e ogni piccolo contributo (come il meraviglioso Fouad o l’ambigua Naima) è un prezioso tassello. Il Passato - co-produzione italofrancese – è grande cinema, fatto di meticolosa cura tecnica ma anche di uno spettro impressionantemente ampio di emozioni. Farhadi è lo psicanalista che esplora i lati più vulnerabili e controversi dei suoi “pazienti”, i protagonisti del suo racconto, e li conduce attraverso un percorso di decostruzione e ricostruzione, non senza farli soffrire, perché è necessario. Diventiamo pazienti anche noi che stiamo a guardare. Senza versare la parcella, per fortuna, ma con la catarsi garantita: scopriamo che c’è un modo sublime per ammettere il dolore, raccontarlo e, forse, superarlo.
E’ superfluo riportare i dettagli di una storia multistrato che va ben al di là dei fatti: il passato si sbroglia piano piano, nelle oltre due ore di pellicola, ma le rivelazioni (per quanto ben congegnate) sono secondarie. Ciò che conta è il lento, talvolta impercettibile cambiamento nei cuori e nelle menti delle persone toccate dal ritorno di Ahmad. Il quale sembra rappresentare un po’ il ruolo del regista: connette, esplora, mette il suo sguardo al servizio degli altri. Una Francia periferica, modesta e di retrobotteghe (“non volevo mostrare la Parigi famosa, non volevo un film turistico”, puntualizza Farhadi) accompagna un indimenticabile saggio sull’umanità e i mille modi che essa sa inventarsi per soffrire. Chapeau.