HYBRIS – Giuseppe Francesco Maione
Hybris è una parola greca che indica tracotanza, spavalderia ed proprio questa ad animare i protagonisti di questa storia a tinte dark. Fabio, Alessio, Marco e sua sorella Penelope si ritrovano a trascorrere una notte in una baita di montagna, luogo di ricordi dell’infanzia, per onorare il ricordo del caro amico Valerio che non c’è più.
Fin dalle prime inquadrature ci si rende conto che questa non è una semplice gita di piacere per ricordare un caro amico scomparso, ma anche un modo per fare il punto sulle proprie vite e per riaccendere antichi dissapori e gelosie mai sopite. Ad attenderli, in quella casa nel bosco, vi è un qualcosa, una presenza, che in qualche modo li ha sempre accompagnati fin da piccoli facendo prendere loro strade sbagliate. Una presenza che non ha fatto altro che attendere silente il momento opportuno …
L’attenzione del regista, fatte le dovute presentazioni dei personaggi, si sposta immediatamente all’interno della casa trasformando il film e adattandolo ad un contesto più claustrofobico. Le finestre della baita scompaiono e ognuno dei quattro protagonisti sembra viversi il proprio trip personale, interagendo con i fantasmi della propria mente.
Giuseppe Francesco Maione è un regista di classe 1993 che con Hybris firma la sua opera prima. Da sempre i film di genere, in particolar modo quelli horror, sono un ottimo banco di prova per giovani registi esordienti; questo perché il genere consente di sperimentare molto, sia in fase di scrittura sia in fase di realizzazione dell’intreccio narrativo.
Con Hybris Maione dichiara senza mezzi termini il suo punto di riferimento, vale a dire The Evil Dead di Sam Raimi cercando di prendere una piega diversa, meno splatter e più atmosferica e psicologica. Il tentativo è azzardato dato che, in questo momento storico, questo genere di narrazioni sono state abusate e devono essere oggi il punto di arrivo dopo anni d’esperienza, in modo da garantire una cura certosina dei dettagli che divengono parte integrante del film.
Innanzitutto, operando in ambiente claustrofobico, è necessario che la storia non faccia sopire lo spettatore ma che, invece, lo incuriosisca e lo sproni ad arrivare fino in fondo nonostante gli stereotipi. Allo stesso modo non può esserci un’ossessionata ricerca del colpo di scena che in qualche modo copra un’effettiva carenza a livello di sceneggiatura. Gli attori sono tutti in parte e fanno effettivamente il loro dovere, sfoggiando una recitazione naturale che aiuta lo sforzo del regista di dare un taglio internazionale al film.
Hybris è a tutti gli effetti un buon banco di prova che, ovviamente, difetta dell’inesperienza e della giovane età del regista che, come egli stesso dichiara, non ha studiato regia ma ha semplicemente divorato film di genere a ripetizione. Ottimo nutrimento.