HAPPY FAMILY – Gabriele Salvatores
Ezio, in seguito ad un incidente in bicicletta, si ritrova nel bel mezzo di una cena tra due famiglie riunite per discutere del (possibile) matrimonio tra i rispettivi figli sedicenni, Filippo e Marta. Egli è il narratore della storia, nonché il deus ex machina che tira le fila (o no?) dei personaggi che si muovono sulla scena.
Tratto da uno spettacolo teatrale scritto da Alessandro Genovesi, basato sui Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, il film di Gabriele Salvatores può risultare un esercizio meta-filmico, pseudo-teatrale o incarnante una vasta sfilza di etichette (o epiteti per i più smaliziati), basato sulla volontà dell’autore di presentare uno scrittore immerso tra problemi che dalla carta, o dallo schermo di un pc per esser precisi, si proiettano nella vita reale e viceversa. Chi di esercizio vuole parlare, non può esimersi dal presentare Happy Family come un lavoro sospinto da un perché.
I personaggi mossi da Ezio, che si intersecano con la sua vita, con i suoi umori e che sono capaci di ingarbugliare i fili tra le dita del burattinaio stesso, sono i nostri vicini di casa, i passanti di cui incrociamo lo sguardo quotidianamente, i nostri parenti o semplici puntini all’orizzonte della nostra vita. Salvatores piazza uno scatenato Fabio De Luigi in mezzo alla scena, novello Buster Keaton italiano, e lo investe con un cappello a cilindro da presentatore di un teatrino imbastito per presentare la mutabilità delle nostre vite. E non importa se possa sembrare stucchevole o scontato, la magia pirandelliana dura finché il sipario non si abbassa.