GLI EQUILIBRISTI – Ivano De Matteo
Giulio è un impiegato delle poste, sposato e padre di due figli: un maschietto che inizia ad avere le prime cottarelle ma già rendendosi conto dei propri limiti fisici e una ragazza sedicenne, chitarrista in un gruppo rock e molto più matura delle altre ragazze della sua età. La vita familiare prosegue nel quotidiano, ma un tradimento dell’uomo rapidamente sta graffiando le pareti del “nume tutelare” portando la coppia verso lo sgretolamento.
Arrivato il momento della separazione preventiva, Giulio si rende conto non solo di non voler separarsi dalla propria famiglia, ma anche delle immense difficoltà economiche che occorre affrontare in situazioni simili, finendo a dormire in macchina e pranzare alla mensa dei poveri, in un processo di annichilimento della propria volontà di svegliarsi al mattino e ricominciare.
Partiamo immediatamente con gli aspetti negativi: la sceneggiatura tende a marcare eccessivamente lo stato di dolore sia con l’ambientazione (natalizia, con tutti i simbolismi che esaltano gli affetti e la forte connotazione di festa familiare ad essa connessi), sia con la musica, sia con forzature, più che altro temporali, che trascinano Giulio nella sua alcova di dolore e disastro economico un po’ troppo rapidamente. Anche la situazione che, nonostante il mutuo, le gite scolastiche o comunque il mantenere due figli, vede due persone con due stipendi sprofondare immediatamente in un baratro economico sembra più funzionale agli intenti del regista che ancorato strettamente alla realtà; anche se viene evidenziata una forte componente morale dell’uomo, più propenso a farsi detestare che a farsi ritenere un fallito. Questo senso di caduta, quindi, viene più costruito ad arte in un elogio della drammaticità che lasciato elaborare allo spettatore in un tragitto di astrazione.
Cavato via il dente, doloroso quanto si vuole, non resta che presentare Gli equilibristi per quello che è: un film emozionale ed emozionante le cui immagini scorrono davanti agli occhi donando scossoni, accarezzando corde dell’animo e sussurrando disperazione. Si tratta di un film dove è impossibile non immedesimarsi, non sentire quel brivido freddo scorrere lungo la schiena nel comprendere la gravità di una situazione che potrebbe capitare dall’oggi al domani. Grazie al bravissimo Valerio Mastandrea, capace di modificare registro dai toni della commedia (amara) a quelli del dramma, si vive quel profondo senso di solitudine che, anche per pochi frangenti, ci ha accompagnato nelle nostre vite, quel senso di discesa vertiginosa che mozza il fiato e nega quasi l’annaspare fuori dal gorgo.
È talmente forte la carica negativa instillata da Ivano De Matteo che quel senso di disagio permane anche dopo la visione e solo gli spiragli intravisti negli ultimi minuti lasciano fiato. Incompleto ma destabilizzante.