VELOCE COME IL VENTO – Matteo Rovere
Ci sono alcuni film che provano a dare uno scossone allo stantio panorama cinematografico, sia del nostro paese che d’oltre oceano, ma se per i cugini americani il problema è che i postumi di una grossa ipertrofia creativa hanno portato al conseguente crollo per esaurimento (nervoso) di idee, nel nostro caso i muscoli della fantasia si sono andati lentamente atrofizzando dopo quell’età dell’oro, caratterizzata dal trentennio che va dagli anni ’60 agli anni ’80.
Per cui, al grido di “Peggio di così non può andare!” e “Si può solo fare di meglio!“, alcune produzioni coraggiose hanno deciso di infondere nuova vita nel canale ormai secco e arido del cinema di genere.
Veloce come il vento è una scommessa vinta, anche per il ritorno in grande stile sulle scene di Stefano Accorsi, dopo essersi preso una lunga pausa dal grande schermo. Forse la pausa in questione non aveva altro scopo se non segnare un chiaro distacco da una certa cinematografia che, nel bene o nel male, lo ha visto protagonista in passato registrandone la notorietà.
Per certi versi, fatti gli opportuni distinguo, la sua carriera può essere accostata a quella di Matthew Mc Conaughey, in una trasformazione da belloccio, muscoloso tutto sesso di inizio millennio, all’emaciato, taciturno e introverso personaggio interpretato negli ultimi anni. Accorsi, come il collega americano, si è preparato molto bene anche fisicamente per entrare nei panni di Loris De Martino, veterano delle corse rally caduto in rovina dopo un fatale e destabilizzante incidente che, da diversi anni, rifugia malessere e fobie nell’eroina, conducendo un tipo di vita dissoluta.
Lo ritroviamo in una roulotte sfasciata in un luogo che può benissimo essere rappresentativo non solo della periferia emiliana, ma delle periferie italiane in generale. Vive con la compagna tossica dilapidando i pochi soldi passati dal padre per sopravvivere, più altri che riesce a rimediare con qualche piccolo furto. Ed è proprio il padre a dare un senso alla vita di Loris, con la sua morte ed il successivo effetto domino. Essendo il fratello maggiore e soprattutto maggiorenne, egli ha la patria potestà sui due fratellini minori Giulia e Nico.
Giulia De Martino (la delicata ma decisa Matilda De Angelis) praticamente ignora chi sia suo fratello, lo vede come uno spostato vagabondo, dopo molti anni ridotto all’ombra di se stesso. Giulia ha imparato dal padre a guidare con prudenza, “a non tagliare le curve” a non assumersi i rischi di una scelta al limite delle possibilità umane. Come diceva Mario Andretti “se hai tutto sotto controllo vuol dire che non stai andando abbastanza veloce“, ed è proprio questo l’insegnamento che le inculca Loris, spiegandole come spingere sul pedale dell’acceleratore e come tagliare le curve, facendo sentire la propria voce o il ruggito del proprio motore.
Scommessa vinta per il regista Matteo Rovere anch’egli giovanissimo al timone di questo film per nulla semplice, sia dal punto di vista della messa in scena sia da quello meramente tecnico. Veloce come il vento sfugge al rischio del banale, evitando accuratamente la facile retorica o i cliché del film sulle corse (vedi Giorni di tuono).
Rovere, invece, riesce a confezionare un film che non annoia ed è ricco di momenti intensi; sfruttando gli spunti cardine della sceneggiatura, le abilità dell’intero cast e un montaggio capace di infondere la giusta scorrevolezza in un costrutto moderno e mai confusionario.
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