VACUITY – Michael Matzur
Un astronauta si rialza da terra con una ferita. Intontito, sente intonare dal computer di bordo una litania, un messaggio laconico, il cui costante “warning” non lascia presagire nulla di buono. L’uomo afferra una foto, è la sua famiglia che lo attende sulla Terra, ma il suo destino lo mette di fronte ad una scelta: salvare i suoi compagni e rinunciare alla propria vita o tornare tra le braccia dei propri cari.
Il regista Michael Matzur rinchiude una l’astronauta Alan Brahm (ben interpretato da Michael Steppe) entro quattro pareti bianche mentre il silenzio dello spazio lo circonda, lo isola da qualsiasi altro contatto umano se non una voce filtrata attraverso una linea distante migliaia e migliaia di chilometri. La sua nave, la Xoeh, ha subito un danno mentre lui si trovava nella capsula di salvataggio, un fato bizzarro che lo induce ad una unica e sola drastica soluzione. L’istinto di sopravvivenza trascina le sue dita sui tasti, pronto a pigiare quello che lo può salvare (condannandolo mentalmente) o condannare (salvandolo spiritualmente).
Vacuity è uno sci-fi costato due anni di gestazione, un prodotto indipendente targato Usa dove non vi è alcun elemento di originalità, dato che la scelta della propria vita a discapito di altre, o viceversa, è già stata trattata in molte pellicole (ricordiamo The Box di Richard Kelly). Ciò che caratterizza il cortometraggio di Matzur è una scelta dei tempi, un dosaggio delle situazioni rapido e incisivo; nessuna titubanza o lungaggine, solo una tragedia umana contata a ritroso da una macchina priva di sentimenti umani. Non imprescindibile ma godibile.