THE RAID 2 – Gareth Evans
Andi, fratello del poliziotto Rama (Iko Uwais), viene giustiziato dall’astro nascente della malavita Bejo. Rama, fuggito dal raid che gli è quasi costato la vita, trova copertura e protezione tra le mani del poliziotto Bunawar, che lo arruola come agente sotto copertura per insidiarsi dentro la gang dei Bangun. A tal fine Rama si fa arrestare e, durante una rivolta dei detenuti, salva la vita a Uco, erede del boss Bangun, guadagnandosene stima e rispetto.
Due anni passano, Rama esce di prigione e ad attenderlo vi è Uco, pronto ad accoglierlo nella famiglia, come guardia del corpo e amico. Djakarta si tinge di rosso sangue mentre la lotta tra clan avanza.
Non è per nulla facile modificare il “manifesto” delle regole di un genere, a maggior ragione se ancorato a dettami così radicati nella cinematografia del passato da risultare obsoleto ma, al contempo, sempre efficace. Gareth Evans ci è riuscito. Prima dirige una sorta di coin-op su pellicola, con tocco mai banale, sfruttando i movimenti dei protagonisti fino allo spasmo, dimenticando (volontariamente) di mitigare l’azione per descrivere la situazione e sbalordendo senza mai innovare veramente (The raid, Indonesia, 2011); adesso compie l’evoluzione.
Con The raid 2 Evans affonda le mani nella storia del cinema di Hong Kong per destreggiarsi tra gli intrighi delle gang locali, tra le lotte di potere dei piccoli sciacalli, in mezzo a dolorose successioni dinastiche spruzzate di sangue, intingendo storie di amicizia forzata, spionaggio e dolore e, a tutto questo, inserisce quanto già plasmato con il primo capitolo. Ne viene fuori una catarsi fatta di corpi che si massacrano in mezzo al fango, martelli manovrati da una ragazza cieca da un occhio che spezzano ossa dentro una metro in corsa, resa dei conti in cunicoli lerci e corpi martoriati dentro il bagno di una prigione.
Gareth Evans, galvanizzato dal successo di The raid, osa di più aumentando il tasso di emoglobina (squarci e ossa spezzate bene in mostra non si contano) e strizzando l’occhio verso modelli occidentali (Matrix, Kill Bill), in un succedersi di azzeccate inquadrature pompate da un montaggio frenetico, ma mai modello videoclip, per uno dei migliori action-movie (stranamente dotato di trama) degli ultimi vent’anni. Speriamo questo nuovo “manifesto” verrà letto da altri registi. Cult.