THE DOOR – Juanita Wilson
“That day, we didn’t just lose a town, we lost our whole word“. La frase che apre e chiude questo cortometraggio enuncia sinteticamente l’anima del film. Siamo nella Chernobyl del 1986, luogo del disastro nucleare che ha colpito migliaia di persone e inabissato nel dolore moltissime famiglie.
Juanita Wilson, per rappresentarcelo, sceglie la strada dello scorcio. La struttura narrativa assume la forma di una sineddoche; difatti sono una singola famiglia, una singola casa, una singola bambina e una simbolica porta a raccontare e rappresentare quello che è stato il dramma di un intero paese.
Un uomo decide di tornare nella sua città, ora evacuata, ed eludere i controlli militari per riappropriarsi della porta della sua vecchia abitazione. La stessa porta che ha accompagnato il corpo del padre defunto e ora è destinata al medesimo scopo con la figlia gravemente malata. Tramite voice-over, l’uomo ci racconta i giorni della fuga dalla propria casa, della scoperta della malattia della figlia; lasciando allo spettatore il compito di immergersi in sequenze suggestive che sfuggono alla trappola della faciloneria e della retorica. Quello che ci avvolge è un dolore silente ed asciutto, segnato da visi emaciati e logori, da assordanti quanto profondi silenzi. Pochissime incisive parole.
La regia evita, quindi, di drammatizzare a tutti i costi, grazie a efficaci ellissi che legano immagini fugaci ed essenziali, ma sufficienti per sentirne la greve emozione. Una piccola abrasione sul braccio della bambina è l’unico frammento visivo di una malattia che successivamente ci verrà confermata dallo sguardo pietoso del medico e dagli occhi ricolmi di dolore del padre. La madre sussurra disarmata che preferirebbe morire pur di non dover vedere più nulla e, noi come lei, non vedremo più nulla se non la bimba esanime distesa sulla porta appena riconquistata dal padre.
La Wilson ci regala una regia in perfetta armonia con il soggetto e la narrazione. La città evacuata è una città morta, ritratta da campi lunghi e immoti. La sequenza dell’irruzione dell’uomo è costituita da inquadrature fisse, statiche che sottolineano come la macchina da presa non voglia assecondare i movimenti umani. La sensazione d’impatto ci rende il protagonista come un intruso, che si intrufola, entra ed esce valicando i limiti immobili dell’inquadratura e della città inanimata. Così come in quel luogo appaiono intrusi anche la sua vivida disperazione e l’orgogliosa volontà di lottare per rendere più degna possibile la funzione per la figlia.
Quando egli attraversa un Luna Park spento, privo di luci e suoni, in quello che solitamente sarebbe un luogo di gioia e divertimento, noi sentiamo ancora più forte il peso di questo silenzio. I colori sono smorzati e la fotografia si staglia su chiaroscuri in una tonalità di grigi. Quando la famiglia è costretta ad abbandonare l’appartamento, la bambina decide di portare via con se le “matitine colorate”, come se volesse coltivare la speranza di poter ricolorare questo mondo.
Il film riesce a far vibrare le corde dell’emozione fotografando un dolore ricamato sull’assenza di immagini compassionevoli, suscitando così un sentimento di rispetto per la dignità che dimostra un uomo che ha perso tutto e, infine, ricordandoci – con l’utilizzo di una soggettiva personale e defilata – una delle più grandi tragedie della recente storia dell’uomo. Notevole e spontanea la prova degli attori, capace di pizzicare direttamente il cuore di chi guarda. ”That day, we didn’t just lose a town, we lost our whole word“.
VOTO: 7/10
Regia, sceneggiatura: Juanita Wilson
Produzione: Louise Curran, James Flynn
Cast: Igor Sigov, Juliette Gering
Ireland, Ukraine, 2008