PARADISE BEACH: DENTRO L’INCUBO – Jaume Collet-Serra
“Oh mio dio, un altro film di squali assassini!”. Guarda meglio! Paradise Beach, che in originale recita The Shallows (ovvero, acque basse o poco profonde), parte pagando dazio per una sinossi già sentita, pinne letali già viste ed un titolo italiano che sposta un po’ il focus dalla suggestione marina alla cartolina turistica.
Poi però, scena dopo scena, il film diretto dal catalano Jaume Collet-Serra (vi ricordate quell’horror con memorabile twist chiamato Orphan?) conquista punti, una sua identità, fascino e carisma inattesi.
I fatti sono effettivamente essenziali: la giovane e piacente surfista Nancy (Blake Lively, The Town, Lanterna Verde) si spinge in una spiaggetta sperduta e virginale, rimasta sola per un “pacco” last minute della sua compagna di viaggio. Nel tuffo di fine giornata, Nancy si imbatte nella mastodontica e lacerata carcassa di una balena; è il banchetto allestito da un enorme squalo, che ha deciso di farsi uno spuntino molto, molto vicino alla costa.
Nancy realizza tutto troppo tardi, viene aggredita e gravemente ferita ad una gamba, si arrampica su uno scoglio a poche centinaia di metri dalla terraferma. Non c’è però nessuno in vista, nessuno in ascolto delle sue disperate grida di aiuto. Nancy perde sangue, forze e speranze: per vincere la natura matrigna e guadagnarsi un’insperata sopravvivenza, servono coraggio, ingegno e forza d’animo. Ma l’alta marea si avvicina inesorabile…
Collet-Serra punta su un nudo racconto d’isolamento che si discosta dalle logiche hollywoodiane del man vs nature, avvicinandosi invece ad un minimalismo narrativo alla Open Water (Chris Kentis, 2003). Il fatto che Paradise Beach nasca come “una giovane donna aggrappata ad uno scoglio” e che il risultato finale sia una scorrevolissima e tesa avventura di sopravvivenza la dice lunga sulla bravura ed il mestiere del regista spagnolo, nonché sulla capacità della Lively nel sorreggere il film per lunghezza e larghezza.
Con una concatenazione di credibili complicazioni e una regia avvolgente, il film trascina la sua protagonista (e la sua unica “spalla”, l’adorabile gabbiano ferito Steven Seagull …) fino alla resa dei conti con le fauci. Ed è sorprendente come, attraverso impercettibili scelte visive e di scrittura, il coinvolgimento e l’empatia nei confronti di Nancy crescano esponenzialmente. Più dramma/thriller solitario che horror (anche se qualche sussulto c’è), Paradise Beach ottimizza le risorse, costringe al gioco del “cosa faresti se?” senza istupidire la sua ragazza immagine; non divaga con sotto-trame esterne puntando i riflettori dritti sulla ineluttabilità dell’isolamento e sulle brutali logiche naturali di preda e cacciatore. A giovarne è l’atmosfera, qua e là piuttosto snervante.
Un buchetto di sceneggiatura e un finale oltremodo “MulinoBianco-style” non intaccano il risultato di un buon film di tensione, che rielabora una materia prima banalotta e la plasma in qualcosa di accattivante. Perfetto per un agosto così, per disdire le vacanze marittime e prenotare a Madonna Di Campiglio.
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