MAREBITO – Takashi Shimizu
Masuoka è un videomaker freelance ossessionato dalla ricerca del terrore assoluto. Nelle sue escursioni si accorge che nel sottosuolo di Tokyo c’è qualcosa di strano. Incontra, infatti, una ragazza muta che si nutre solo di sangue e si trova costretto a procurarle del cibo.
Rivolgersi ad una composizione di monitor, che non solo fanno da piattaforma mediatica di una realtà registrata ma anche da spia a circuito chiuso della propria vita, lascia sorgere interrogativi fondamentali, necessari per capire l’ottica di MAREBITO. Quesiti che vanno oltre le caratteristiche del personaggio-reporter stesso, come anche delle scelte registiche e ci portano direttamente alla funzione visiva di certo non singolare ma attuale, sino all’aspetto più chiaro della pellicola: il video.
Video come “vedere”: io vedo, non per ricordare o per discriminare colori e movimenti, vedo per registrare. Videoregistro per arrivare non ad una normale soluzione visiva filtrata ma a un’indagine dove il punto di partenza, in questo caso, è il “vero terrore”. Masuoka, interpretato da Shinya Tsukamoto, si è accorto di qualcosa: cosa guardava quell’uomo prima di suicidarsi? Perché era così spaventato? Forse tali domande trovano risposta in quell’immagine nuda non censurata dalla funzione manipolatrice del montaggio? Oppure l’uomo ha iniziato ad accorgersi degli altri attraverso il progresso sempre a noi più familiare delle nuove tecnologie? Il punto di partenza si spinge oltre.
Masuoka accendendo la sua video-camera inizia il suo cammino, come un rettile che si aggira nel sottosuolo di Tokyo, analizzato nella progressione del proprio percorso. Filma in suoi passi, le persone che gli vengono incontro, qualcosa alla finestra e se stesso accanto ad una donna che forse era sua moglie. Non è più il regista che premedita l’azione o il luogo da riprendere, è il videomaker, il videoreporter non degli eventi ma di (e per) se stesso. Magari il suo atteggiamento non è altro che una deformazione professionale ma tale deformazione diventa esigenza quando videoregistrare smette di essere un lavoro, ed il solo premere il tasto rec diventa espressione propria, anche se persa nella solitudine dei cunicoli della metropolitana. La realtà registrata, allontanatasi dal binario sociale o persa la volontà di narrare, diventa margine e non più documentario.
MAREBITO in qualche modo è il manifesto che rivendica quei videoperatori che storcono il naso quando vengono definiti amatori, per il fatto che queste persone non gioiscono delle immagini che catturano ma le studiano. Non è materiale di spassose giornate al mare ma è il fondamento di chi ha bisogno di vedere. Come si dice: il silenzio è dei poveri.
Stampare uno still, rendere “fotografia” una figura che non ha nessuna transizione fotografica (anche se oggi anch’essa, con il digitale, ha perso la sua storia) conferma l’inizio di un tragitto visivo che ha un fondamento proprio nell’atto del registrare tanto che la sequenza video diventa il metro di misura per contemplare il tempo, i luoghi e le espressioni di un volto. Shimizu descrive soprattutto questo aspetto, non solo un thriller di grande poesia ma quella categoria di persone che indagano la realtà osservandola nuda senza alterazioni, facendo notare che sostanzialmente non tutto ciò che è limpido vive in superficie.
VOTO: 8/10
Regia: Takashi Shimizu
Sceneggiatura: Chiaki Konaka
Direttore della Fotografia: Tsukasa Tanabe
Musiche: Toshiyuki Takine
Montaggio: Masahiro Ugajin
Cast: Shinya Tsukamoto, Tomomi Mivashita, Kazuhiro Nakahara, Miho Ninagawa, Shun Sugata
Giappone, 2004