LA SCOPA DEL SISTEMA – David Foster Wallace
24 anni o giù di lì. 24 anni e già aver scritto un capolavoro immenso. Come in tutti i suoi (pochi, sfortunatamente) romanzi, occuparsi della trama è veramente complicato. Ne La scopa del sistema incontriamo una ragazza, Lenore, alla ricerca della bisnonna, sua omonima, misteriosamente scomparsa dalla casa di riposo insieme ad altri venticinque vecchietti.
Nella sua strana ricerca, Lenore ci fa incontrare tutti gli improbabili personaggi che fanno parte, in un modo o nell’altro, della sua vita, una divertentissima sfilata di varia umanità che, per quanto grottesca, è sicuramente più reale di qualunque persona vi sia mai capitato di incontrare nel quotidiano. Con David Foster Wallace sorge subito un enorme problema, quello che riduttivamente è definibile come “ricerca etica”, di cui è pieno ogni suo libro.
Se frequentate anche solo minimamente il mondo letterario italiano vi sarete imbattuti nella frase “meno etica, più estetica” (“less ethic more aesthetic”), frase che usano gli scrittori (o presunti tali) per mostrare ai propri lettori quanto sono fighi e superiori agli altri. Il problema sembrerebbe insolvibile, se spiegato in questi termini:
a) Wallace cerca di dare alla letteratura una dimensione etica (lo esplicita anche in qualche intervista);
b) L’etica è sbagliata e non ha niente a che vedere con la letteratura, parola di scrittore fico;
c) Wallace è universalmente riconosciuto come un grandissimo scrittore e anche i suddetti “tifosi dell’estetica” lo riconoscono (o meglio, il loro ego li costringe a riconoscerlo) come tale;
d) Lo scrittore figo a cui si farebbe notare una tale discrepanza andrebbe sicuramente in panico, che dissimulerebbe con la sua solita area saccente, con la quale suggerirebbe velatamente (non te lo dice mica, a te, essere inferiore), che di letteratura e arte non capisci un emerito cazzo.
Il problema, in verità, è di facile risoluzione: le parole etica ed estetica, che le varie squadre di scrittorucoli usano, in vari slogan, per rinfacciarsi la rispettiva idiozia e incompetenza, sono parole che contano veramente poco. Entrambe finiscono per fare la stessa fine nelle mani sbagliate. L’unica cosa che conta è quanto l’opera sia vera, quanto di sé, in essa, abbia messo lo scrittore … e Wallace è proprio quello che tutti possiamo leggere ne La scopa del sistema. Un libro contorto, cervellotico, difficile ma tremendamente, estremamente dolce e malinconico. Un capolavoro che scandaglia, continuamente, quella che in tutta l’opera di Wallace è una questione, irrisolta, che torna sempre: il rapporto tra il Sé e l’Altro. Su come sia difficile e su quanto sforza richieda, vedere gli altri riuscendo a fare a meno di filtrare la loro immagine attraverso lo specchio dell’ego. Su come l’amore, di qualunque tipo esso sia, presupponga una, sicuramente difficile ma altresì necessaria, rinuncia a se stessi.
Un’ossessione per Wallace, il quale non poteva, da genio quale era, non rendersi conto di quanto angosciosa e terribile fosse la condizione di ogni essere umano che, per quanto si sforzi, non può prescindere dal fatto che ogni elemento della cosiddetta realtà non possa fare a meno di passare attraverso la percezione dell’Io e di che valore (vero) possano assumere quelle parole apparentemente così banali e che così spesso usiamo (a sproposito) nelle situazioni meno adatte. E lo sforzo estremo di David Foster Wallace è premiato: riesce a mettersi nei panni dell’altro. I suoi “personaggi letterari” ne sono la prova certa. La scopa del sistema parla di questo e di molto altro.
Un capolavoro sulla forza delle parole e su come queste possano valere più della vita stessa e di come, in un certo qual senso, anche loro possano diventare un’insostenibile prigione. Una prigione dalla quale solo la negazione di Tutto, anche della storia stessa, può liberarci. Insomma, un continuo sforzo per l’Altro, l’Altro da sé. Uno sforzo che non può non concludersi se non con la ricerca del nulla, della negazione di ogni cosa. Sicuramente l’opera di Wallace che più amo, La scopa del sistema è anche il suo romanzo meno complesso, sia dal punto di vista stilistico che da quello letterario. Durante la lettura di Infinte Jest, ad esempio, romanzo sicuramente superiore, non ho potuto fare a meno di perdermi in più di un’occasione e, a scanso di equivoci, la “colpa” è di chi legge, non certo di chi scrive. Stilisticamente, inoltre, Wallace ancora non adotta le caratteristiche note a piè di pagina che saranno il marchio di fabbrica del capolavoro Infinite jest.
Come ogni volta che si finisce di leggere qualcosa di Wallace, non si può non desiderare di non averlo conosciuto. È riduttivo, chiaramente, rispetto al valore imprescindibile e sicuramente “oltre-umano” di tutto quello che scrive, ma è così. Insomma, un capolavoro sotto ogni aspetto. Un libro perfetto per cominciare ad entrare nell’intricatissimo mondo di quel genio che ci ha lasciati qualche anno fa. Uno sforzo, quello di entrare nella sua scrittura rinunciando a noi stessi, che sarà ripagato in maniera esponenziale.