LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO – Pupi Avati
La campagna ferrarese, una landa dove il sole riverbera prepotentemente, un luogo dove ha vissuto (o vive?) una famiglia disfunzionale composta da un pittore (forse) morto suicida circa vent’anni prima e dalle due sorelle, incapaci di dimostrare amore verso l’uomo se non fornendogli la materia prima di cui ha bisogno: l’agonia di corpi moribondi.
Un restauratore di nome Stefano, approda nella chiesetta del paese per riportare alla luce un affresco del pittore maledetto, grazie alla raccomandazione dell’amico Antonio. Quest’ultimo muore presto, spinto da un balcone, lasciando cadere Stefano in una tela ricca di misteri, la cui trama sottile è nascosta all’interno di una casa … dalle finestre che ridono.
La casa dalle finestre che ridono è uno di quei (purtroppo) rari fenomeni cinematografici dove la paura non si nasconde negli angolini più bui di una casa o nel silenzio della notte, ma diviene osmotica nel suo aleggiare lungo tutta la landa desolata e desolante. Il mistero si nasconde tra i radi cespugli, spia attraverso crepe sui muri, attende paziente la preda osservando granelli di polvere che cadono in una clessidra. Un giallo dalle tinte horror che si tinge di nero, grazie alle pennellate di un Pupi Avati che non lesina particolari, dettagli, costruendo una realtà rurale realistica e spaventosa.
Al suo quinto film, il regista bolognese riesce nell’impresa di traghettare sensazioni provenienti dal decennio precedente e anticipa quelle del decennio futuro, costruendo con La casa dalle finestre che ridono un lavoro d’atmosfera, dove il polline si adagia sui corpi dei morti mentre le campane di una chiesa cadente suonano nel silenzio della campagna. Cult.
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