LA BOTTEGA DEI SUICIDI – Patrice Leconte
“Contro la crisi e il carovita, scegli una dolce dipartita, prendi il coraggio fra le dita, canta con noi: viva il suicidio!” (La Canzone dei Tuvache). Immaginate una città dove tutto è cupo e grigio, dove il sorriso si è praticamente estinto e l’emozione dominante è una depressa e ciondolante malinconia.
La logica conseguenza è l’incontenibile motivazione a porre fine alla propria esistenza, nonostante la legge vieti di farlo in pubblico. Quale miglior business dunque di un negozio che mette in vendita tutto (ma proprio tutto!) l’occorrente per lasciare il mondo crudele in maniera riservata, creativa e, ancor più importante, completamente efficace? L’intuizione commerciale investe la famiglia Tuvache, che ha naturalmente tutti gli interessi affinché i suoi concittadini coltivino e mantengano la più desolante delle negatività.
Ma il destino è beffardo e riserva una sorpresa. Ad ampliare la famigliola, composta da papà Mishima, mamma Lucrèce e dagli apaticissimi figli Marylin e Vincent, arriva il neonato Alan: carino, in salute e soprattutto inopportunamente sorridente. Un vitale raggio di sole che scuote la coltre di nubi. L’allegria, si sa, sa essere contagiosa tanto quanto il malumore, quindi il piccolo di casa Tuvache dovrà perdere in fretta la “joie de vivre” o la sua famiglia rischierà seriamente di chiudere bottega.
Il parigino Patrice Leconte (Ridicule, La Ragazza Sul Ponte) trasforma in animazione l’omonimo romanzo dello scrittore Jean Teulé, una commedia nerissima e scorretta cucita attorno ad un pubblico maturo. Gotico e crepuscolare quanto basta per attirare visivamente i burtoniani, ma nel contempo sguaiatamente giocherellone qua e là, il film (fuori concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes) difetta tuttavia di un bipolarismo eccessivo fra favola per bambini e decadente racconto esistenzialista. La delicata tematica del suicidio diventa spunto esilarante ma anche sottilmente riflessivo e le trovate brillanti non mancano, dalla trama originalissima alla rappresentazione mestamente poetica di una città dove nessuno ha più voglia di esistere (piccioni compresi!), dai nomi di illustri personaggi suicida appioppati ai protagonisti alle situazioni grottesche e tragicomiche della clientela che entra ed esce dalla Bottega.
A sfuggire in questo carosello di idee e di gag è però l’identità della pellicola di Leconte, visione adulta troppo complicata e graffiante per il pubblico infantile, al quale Leconte dedica come risarcimento molti – troppi! – momenti musicali (le brutte canzoni wannabe-Disney sono firmate Etienne Perrucon) e un finale improvvisamente buonista. “Morti o rimborsati” è il motto di un film godibile ma incompiuto, che poteva essere molto più del risultato finale. Non se ne va il sospetto che Leconte provi a fare un film per tutti su un tema non per tutti, cadendo in una contraddizione stilistica che limita fortemente l’impatto del suo pur creativo lavoro.