FEDERICO GRECO – Intervista
Intervistare un giovane autore nostrano con tante idee e voglia di fare è sempre un piacere. Federico Greco è un regista capace e dinamico, capace di gettare attentamente l’occhio anche all’estero senza dimenticare i confini nostrani. Recentemente ho recensito in collaborazione con Vawe due suoi lavori (Liver e Road to L. – Il mistero di Lovecraft); in attesa di nuove sorprendenti pellicole vi lascio in sua compagnia.
1. Di rito devo farti la fatidica domanda (quella per cui ogni bravo autore opta per un sagace copia/incolla dalla propria biografia), presentati descrivendo principalmente come sei arrivato dietro la macchina da presa e quali sensazioni ti hanno destabilizzato al punto tale da trascinarti sino alle terre desolate dell’horror-movie e derivati.
Ho iniziato come operatore di macchina e poi, molto dopo, come regista. Il progetto che mi aiutato a “sdoganarmi” in questo senso è stato il documentario su Kubrick del 1999, Stanley and Us, che è stato venduto in tutto il mondo oltre che in Italia. Di lì ho capito che la strada era leggermente meno in salita e che qualcuno avrebbe preso in considerazione i miei progetti.
Cinque anni dopo infatti il produttore di Road To L. ha letto il soggetto del film e l’ha prodotto. Non so bene perché il mio esordio sia stato proprio un horror. So solo che – come dice Valerio Evangelisti – la letteratura e il cinema di genere sono uno straordinario grimaldello per raccontare la parte in ombra della società. E l’ombra mi piace più della luce… D’altronde tra i miei film preferiti ci sono Shining, Alien e Poltergeist. Anche il progetto sul quale sto lavorando adesso è un horror. E anche qui è un caso (?), perché l’horror mi sembrava l’unico modo interessante per affrontare un tema molto controverso di politica internazionale, quello delle extraordinary renditions.
2. Mi hanno sempre affascinato le tradizioni popolari e ho trovato particolarmente evocativi “I racconti del filò” (presenti in Road To L.); nelle fresche nottate estive siciliane capitava di sedersi di fronte ad un falò sulla spiaggia raccontandosi storie “vere” (dette in via confidenziale da un caro amico/a del fratello di solito!), anche tu avevi (o magari hai) l’abitudine di incontrarti con amici spaventandovi a vicenda con leggende metropolitane o simili? Qual’era il vostro luogo preferito di incontro?
No, purtroppo non ho avuto questa fortuna. Ma non dimenticherò mai i racconti che mia nonna faceva a noi nipoti sulle doti paranormali di sua madre… Probabilmente parte del mio interesse verso la parte “oscura” deriva anche da questo. Mia nonna era una persona molto razionale e sentirla parlare così mi colpì molto. E forse, incosciamente, col mio film ho cercato di riprodurre la dinamica di quelle sensazioni: trovarsi di fronte a storie paurose raccontate da una persona in assoluta buona fede e nota per la sua serietà è un po’ lo stesso meccanismo di un mockumentary.
3. “La maschera di Innsmouth” è il principale ispiratore sia delle citazioni tra un capitolo e l’altro sia a livello di trama. Immagino la scelta sia dovuta alla apparente somiglianza tra zone dell’Inghilterra note a Lovecraft e quelle delle Polesine; conoscevi già le location usate oppure c’è stato un periodo iniziale esplorativo?
In realtà le zone di Lovecraft sono quelle del New England negli Stati Uniti. E sì, la somiglianza con la costa e l’entroterra del delta del Po è inquietante. Quei luoghi li conosceva bene Roberto, il coregista del film, che mi ha portato ad esplorarle qualche mese prima di girare. Da questo sopralluogo è poi nata gran parte dell’idea definitiva, che all’inizio era una grande mole di appunti, ricerche e idee senza una forma precisa. Che è venuta in seguito, anche grazie all’apporto di un amico sceneggiatore, Igor Maltagliati.
4. La scelta di girare in lingua inglese sicuramente permette una meno laboriosa visibilità all’estero, ma come mai non hai pensato di ridoppiare il lavoro anche in italiano? Oltretutto l’uso del dialetto, senza traduzione, restringe il campo della comprensione di una considerevole fetta del pubblico (a meno di abilitare i sottotitoli in inglese), come mai questa scelta anticonvenzionale?
Scelta non da botteghino, sono d’accordo. Ma un film del genere, che ha l’aspetto di un documentario, in cui i personaggi parlano 3 lingue (inglese, italiano e veneto) e in cui la comunicazione tra di loro – o la sua mancanza – è un elemento importante della storia, non poteva essere doppiato. Pena la perdita d’efficacia del film. Sono sicuro che molti la pensano diversamente, affermando che per il pubblico italiano un film è più efficace se doppiato. Non sono d’accordo: se facessimo uno forzo e ci abituassimo a vedere i film in lingua originale scopriremmo che sono molto più efficaci.
Di questo perciò sono felice, anche se sicuramente ha selezionato e limitato il pubblico. In Spagna invece il film è uscito doppiato, ma non conosco ancora il risultato. Sono curioso, e molto preoccupato…
5. Ho trovato difficoltà nel comprendere il dialetto veneto, tuttavia sono curioso di conoscere l’interesse delle persone del luogo (il pescatore per esempio) nei confronti del vostro lavoro visto che non solo utilizzavate le loro lande, ma anche le loro tradizioni.
Contraddittorio. Da una parte si sono dimostrate persone straordinariamente cortesi e disponibili. Dall’altra, qualcuna di loro è stata scettica e a volte ostile. Soprattutto quando parlavamo di cose che loro reputavano non gradite, come la confraternita dei “fradei” di Loreo.
6. Come mai la scelta di un finale palesemente paragonabile a The Blair witch project, il film ti aveva influenzato positivamente o si è trattato di una sorta di unica “soluzione” dell’enigma?
Come ho detto spesso, TBWP mi colpì molto quando uscì, ma oggi è un film datato. In realtà è stata la storia che avevamo in mente a dettarci lo stile del film. Con quell’idea legata a Lovecraft – autore del più famoso falso libro di tutti i tempi, il Necronomicon – non potevamo che scegliere il mockumentary.
7. Come è nato l’interesse verso la figura del Mostro Palmato? Dove ne hai sentito parlare la prima volta?
Leggendo alcuni racconti del ‘filò’ raccolti in libri di antropologia. Ricordo che la prima volta che ci rivolgemmo ad un’esperta del luogo molto seria, lei accolse le nostre domande con ironia e scetticimo. Più tardi tornò da noi, sorpresa, perchè alcuni suoi allievi avevano chiesto del cosiddetto ‘uomo pesce’ ai loro nonni ed avevano scoperto che questi ultimi ne avevano sentito parlare in antichissime leggende che neppure lei conosceva.
8. Come è nata la collaborazione con Ottaviano Blitch? Il cortometraggio “Liver” mi è sembrato funzionale al brano finale Signal to Noise di Peter Gabriel, realizzato (a livello di regia e montaggio) come un videoclip. Questa non è una critica intendiamoci, ma l’idea principale da dove è nata?
Con Ottaviano ci siamo conosciuti sul set di un cortometraggio noir, “Il capomastro”, di cui ho curato la regia. Era il protagonista. Poi mi ha proposto di dirigere “Liver”, nato da una ua idea. Il progetto mi è piaciuto – anche perché leggermente diverso dalle cose che sono abituato a fare perché appunto molto incentrato sull’elemento musicale – e l’abbiamo realizzato insieme. Lui l’ha anche prodotto.
9. Ti lascio le ultime righe per lasciare una citazione a tua scelta (bandita la possibilità di utilizzare “La maschera di Innsmouth” come fonte!).
“Noi siamo ciò che tutti noi temiamo, un labirinto senza centro“. (Chesterton)
Ha ispirato uno degli ultimi progetti che sto scrivendo.