HIRUKO THE GOBLIN – Shinya Tsukamoto
Il demone Hiruko viene improvvisamente risvegliato e liberato dal professor Yabe, in esplorazione di un tumulo abbandonato. Conosciuto e temuto dai vecchi del villaggio e tenuto a bada per anni, rinchiuso nel suo sepolcro sotto la stretta sorveglianza del custode di una scuola e tramite formule e simboli magici incisi nella roccia, Hiruko non perde l’occasione per lanciarsi fuori dalla sua prigione di pietra e inizia a disseminare morti nella scuola, fortunatamente poco popolata durante il periodo delle vacanze estive.
In breve i pochi ragazzi presenti nei paraggi vengono brutalmente decapitati e Hiruko s’impossessa delle loro teste per dare vita a nuovi orribili mostriciattoli dalle sembianze aracnidi. Ogni decapitazione viene puntualmente registrata sulla pelle di Masao, figlio del professor Yabe, che si vede suo malgrado (e tra atroci sofferenze) comparire sulla schiena un bassorilievo dei volti delle vittime. Con l’aiuto dell’archeologo Hieda e di un macchinario dotato di un sensore in grado di rilevare i demoni maligni, Masao comincia la caccia a Hiruko, che lo perseguita e lo tenta al suicidio prendendo le sembianze della sua amata Tshukishima, primissima vittima del goblin.
A metà tra una sorta di Ghostbusters e The Goonies in versione gore, Hiruko the Goblin è un filmetto per ragazzi, con persino sprazzi di romanticismo adolescenziale (ampiamente evitabili). Tuttavia risulta nel complesso un prodotto notevole (d’altronde Tsukamoto non è l’ultimo dei cretini) e di ottima qualità.
Varie venature s’intrecciano tra di loro senza che nessuna prenda mai il sopravvento. Il film si mantiene in perfetto equilibrio ondeggiando tra attimi d’intenso pathos in tipico stile nipponico e momenti di follia weird al limite col kitsch che riescono anche a far (sor)ridere. Le visioni oniriche e profondamente disturbate non sono mai enfatizzate al punto da perdere il contatto con la realtà, tenuta saldamente tra le mani di Masao con la sua giovanile e strenua voglia di vivere, che non fa (quasi) nemmeno una piega quando Hiruko strappa lentamente la testa di suo padre come se stesse spolpando un cosciotto di pollo, per caricarsela su una montatura di ragno e dare vita a un nuovo goblin.
Anche il ritmo della pellicola oscilla sapientemente tra attimi densi e lenti (a sottolineare la drammaticità delle immagini) ed improvvise corse a perdifiato. Shinya Tsukamoto non indugia su nessun aspetto in particolare, ma li tocca tutti al punto giusto. Si ride, ci si schifa, ci si sente opprimere petto e stomaco, si è preda di tensione e ansia ma anche di sensazioni liberatorie e di alleggerimento. Caleidoscopio completo.
Non viene dato molto spazio alla psicologia dei personaggi ma la magistrale prova del giovane Kenji Sawada permette di non rimpiangere affatto lo scarso spessore introspettivo. L’attore, per quanto alle prime armi, da mostra di un’espressività e una mimica facciale decisamente coinvolgenti che lo portano a perforare il tetto dello screaming raggiungendo qua e là punte di follia comica senza però mai scadere nella risata gratuita.
Belle le atmosfere evocate dalla pervasività dei colori rosso e blu che alternativamente invadono la scena, ottima e sapiente la fotografia, interessante la colonna sonora ancora lambita dalle ultime lingue dell’ormai declinante sound 80s (e chi scrive odia quel sound, che in questo contesto ritrova un perché). Un film ben costruito e narrato, da vedere in tutta leggerezza, senza però il bisogno di spegnere completamente i neuroni.
VOTO: 7/10
Regia: Shinya Tsukamoto
Cast: Kenji Sawada, Masaki Kudo, Hideo Murata, Legumi Ueno, Naoto Takenaka
Soggetto: Kojii Tsutsuni (dal fumetto Yokai Hunter, di Daijiro Moroboshi)
Fotografia: Masahiro Kishimoto
Musica: Tatsushi Umegaki
Produzione: Shochiku – Fuji, Sedic
Giappone, 1990
Durata: 89 minuti