COLD FISH – Sion Sono
Il timido gestore di un negozietto di pesci, Shamoto, e la sua giovane moglie, Taeko, incrociano i loro destini con l’apparentemente ilare e gioioso Murata,anche lui gestore di un negozio di pesci tropicali dal tenore di vita decisamente superiore al primo. La cordialità di Murata sparisce rapidamente, lasciando emergere la sua anima nera come la pece e avvolgendo la famiglia di Shamoto in un ciclone di sesso, carne e sangue.
Il cinema di Sion Sono stupisce per la sua capacità di unire i toni grotteschi tinti da molto gore al vero orrore, quello che si snoda dalle linee della vita delle mani di un uomo e si annoda intorno ad un altro corpo pulsante per spegnerne l’esistenza. E lo fa con brutale cognizione di causa (Murata) o dopo destabilizzante turbinio del proprio animo (Shamoto). Il suo cinema è racconto decostituente, accusatore della viltà e urlata prepotenza di chi detiene il potere (morale, economico o entrambi, poco importa) così come di chi vive per sola inerzia, trascinando con sé i propri cari, incapace di remare anche in acque placide.
Cold fish si basa su un agghiacciante fatto di cronaca nera che vede Gen Sekine e la moglie Hiroko Kazama condannati a morte per lo smembramento di quattro clienti, ma si tratta di uno spunto che nel proprio cuore tiene comunque la veridicità di un massacro spietato quanto possibile, ma d’altra parte ne esagera i toni con tonalità eccessivamente grottesche, che alle volte sembrano voler allontanare il plot dal mondo reale per immergerlo dentro un mood pseudo-favolistico. Tuttavia il crescendo verso un finale tremendamente violento riprende in parte le redini della realtà, ricordando a tutti come la follia è sempre celata dietro l’angolo e che “il sonno della ragione genera mostri“.