BEKET – Davide Manuli
Freak e Jajà si trovano in una terra di nessuno, senza data né tempo. L’uomo non abita più il pianeta. Solo qualche strano personaggio sopravvissuto appare raramente. I due protagonisti si incontrano ad una fermata del bus in mezzo al nulla, senza conoscersi. Il bus arriva, ma non si ferma. Era il bus che portava a Godot, il Dio che si è manifestato al di là della montagna sotto forma di sonorità musicale. Avendo perso il bus, Freak e Jajà decidono allora di cercarlo a piedi. Iniziano così un viaggio che farà loro incontrare i bizzarri personaggi che abitano questa landa.
Troveranno un mariachi cantastorie, due attori che recitano Adamo ed Eva in mezzo ad un lago salato, un bambino che sembra il “magico” portavoce di Godot, un oracolo che vive sulla torre d’estrazione di una miniera abbandonata… ed infine una ragazza solitaria che vive sulle rive di un mare. Purtroppo però prima della fine del loro viaggio … Freak e Jajà troveranno la morte prima di arrivare al loro Dio.
Coraggioso. Nell’affrontare filmicamente un caposaldo della cultura contemporanea come En attendant Godot. Nel cercare di riproporre, all’interno della struttura filmica, lo stesso malinconico nulla pensato da Samuel Beckett per la scena. Nel presentare al pubblico un film di 78 minuti, dove non succede nulla, pretendendo, allo stesso tempo, spettatori reattivi e pensanti, che non rispondano ai dialoghi ritornanti e carichi di tedio con l’oblio del sonno. Coraggioso Davide Manuli nel presentare a una giovane produzione un progetto filmico come Beket, e coraggiosa le Blue Film a decidere di produrlo.
Drammaturgicamente il film riprende la struttura a due atti del En attendant Godot di Beckett, con il suo folle meccanismo di ciclicità e ripetizione, ma attualizza i due uomini in eterna attesa, calandoli in un mondo fuori dal tempo. Vladimir ed Estragon, che ora si presentano il primo [Luciano Currelli, Freak] elegante e scorbutico, l’altro [Jerôme Duranteau, Jajà] con un giacchetto di pelle, meno riflessivo e con unforte accento francese. I nuovi Vladimir ed Estragon, sono stanchi di aspettare il loro Godot, per questo l’albero spoglio che era la loro location teatrale si trasforma in fermata di autobus, ma di un autobus che, ovviamente, non li caricherà a bordo, planando proprio davanti agli occhi dei due. Freak e Jajà decidono di rompere comunque il ciclico ripersi dei loro giorni, per raggiungere il posto in cui lo sfuggente personaggio dovrebbe nascondersi, essendosi incarnato in divinità musicale: una montagna da dove arriva incessante e fastidiosa della musica tecno.
Ecco dunque i due uomini beckettiani abituati allo scarno albero sfiorito, ritrovarsi di fronte ad un madornale cambio di location. Gli spazi in cui il regista decide di impiantare queste due cellule sono tutti enormi, sconfinati: spiagge, eremi, imponenti industrie abbandonate. Tutti posti profondamente tristi e spiacevolmente vuoti [come le piéces di Beckett], o solo visitate talvolta da insensate creature che animano a intermittenza il viaggio dei due protagonisti. Rielaborazione del Maometto che va dalla montagna, Freak e Jajà vengono sradicati dal terreno brullo in cui Beckett li aveva piantati e si trovano teletrasportati in questi nuovi spazi, esaltati dal bianco e nero molto contrastato. La bellezza delle location già regala molti punti al film.
Riecheggiano le parole di Beckett nelle battute dei due protagonisti filmici, che regalano una degnissima prova d’attore, in due ruoli impegnativi e con alle spalle tanta/troppa storia con cui fare i conti. Gli eredi di Samuel Beckett lavorano dalla sua dipartita per tenere sotto controllo i rifacimenti e gli adattamenti delle opere del maestro del Teatro dell’Assurdo.
Vegliano sul fatto che i registi non tradiscano, nei loro adattamenti, la volontà scenica dell’autore; facendo questo, però, arrivano a compiere un’azione censoria sulla stessa opera beckettiana: ancora profondamente sentita e florida per germogliare nuovi ritorni in scena. Non so cosa gli eredi di Beckett potrebbero pensare di questo adattamento filmico, ma sicuramente se l’avessero ostacolato avrebbero messo a tacere un opera che affronta l’originale con dignità, con rispetto, ma che lo colora di altre situazioni e rimandi. Come il pugile Simone Maludrottu, che campeggia nei titoli di testa, il regista Manuli sembra voler fare strage del cinema italiano ufficiale, con un’opera potente e acida. Che può far rumorosamente piazza pulita.
Il regista riesce ad esaltare i personaggi ma vuole rendere protagoniste anche le location, lavorando molto anche sui campi lunghi. La sua scelta del bianco e nero rientra idealmente nel discorso della riscoperta di un mondo e di personaggi pre-esistenti al loro ritorno filmico. Un bianco e nero che si rompe solo quando si romperanno i due protagonisti, distrutti dal viaggio e dagli incontri, e distratti dalle nudità di un’avvenente “madre natura”. La morte decisa dal regista sarà violenta, ma ci è dato di vederne solo gli effetti: i due uomini morti sulla riva e il mare che finora era stato grigio chiaro, quasi completamente rosso. S’intuisce un richiamo ai Ciprì e Maresco di una volta, nei personaggi di Adamo ed Eva, protagonisti di una scena di teatro nel teatro [nel cinema].
Anche qui un dilatarsi di tempi e un continuo ripetersi di battute e situazioni fanno eco alle drammaturgie dell’Assurdo, virando sulla leggerezza e sul grottesco.
Grande prova anche per Roberto “Freak” Antoni, scrittore, cantante, attore e leader degli Skiantos, che si presenta nella doppia veste di un mariachi appassionato di gelati, e di un meraviglioso oracolo buono.
Tanta carne sul fuoco, per questo secondo lungometraggio di Davide Manuli che faticosamente si sta facendo largo in alcune sale italiane per raccontare l’attesa eterna di due uomini che, indifferenti e moribondi, aspetteranno vicino all’albero [o alla fermata dell’autobus] finché un nuovo regista non decida di accedere su di essi i riflettori … speriamo in maniera coraggiosamente personale e organica come questa.