ANDROMEDA – Robert Wise
Il deserto del New Mexico si staglia nella sua immensità e nel suo senso di desolazione, riverberandosi nella cittadina di Piedmont, un posto dimenticato dagli uomini e da Dio dove la popolazione diviene cibo per avvoltoi a causa di un virus di origine aliena. Solo due persone sono sopravvissute: un anziano e un neonato. Un team composto da studiosi di diversa estrazione si rintana in una segretissima base americana per studiare il virus e capire (apparentemente) come debellarlo.
Basato sull’omonimo romanzo di Michael Crichton, Andromeda rappresenta il ritorno alla fantascienza del regista Robert Wise a vent’anni da Ultimatum alla Terra. Ancora una volta, il regista rappresenta un “pericolo” proveniente da fuori (lo spazio) ma che, in realtà, nasconde la vera genesi dell’ecatombe in seno (l’umanità stessa). Il virus è reale e concreto, a differenza di Klaatu, solo che con lo scorrere degli eventi si capisce come le intenzioni siano quelle di comprenderlo per utilizzarlo come arma, non per sconfiggerlo, e la cittadina di Piedmont non può che rappresentare la punta di un iceberg di morte (qualcuno ha detto Vietnam?).
Wise dirige con stile asettico, quasi a voler riportare gli eventi come ineluttabili, senza ipocrisie, derive hollywoodiane o intarsi sentimentali utili a rimpolpare la storia. Questa scelta diviene al contempo croce e delizia di Andromeda, negativamente scosso da una lentezza e minuziosità scientifica di fondo, così come al contempo realistico e documentaristico. Anche gli attori, quasi sconosciuti, e la location prettamente racchiusa dentro le mura del laboratorio, concorrono a generare questo senso di isolamento e grave cammino verso la fine dell’umanità. Freddamente realistico.
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