6 DEGREES OF SEPARATION FROM LILIA CUNTAPAY – Antoinette Jadaone
Il Far East Film Festival è sempre un evento per la città di Udine; cinefili e non, amanti della cultura Orientale, fanatici dei Manga oppure semplici curiosi che non vogliono farsi sfuggire “il gettone” ad una manifestazione di rilievo internazionale. Ricadendo nella categoria degli amanti del cinema, ogni anno si presenta l’occasione ghiotta di prendere maggiore confidenza con una delle cinematografie più singolari e produttive del mondo.
Purtroppo il tempo è poco per tutti ed è sempre opera complessa e dolorosa lavorare di “accetta” e scegliere cosa vedere e cosa no, rischiando spesso e volentieri di mancare il capolavoro nascosto e di centrare appieno il deludente “Colossal” di genere che rinuncia a una totale adesione alla propria cultura nazionale allo scopo pernicioso di scimmiottare, spesso in malo modo, il cinema americano. Dopo una settimana di stenti, tra biglietti presto esauriti e ressa alla fila d’ingresso, decido di recuperare i film perduti (ne avevo visti solo una manciata fino a quell’istante) facendo un tour de force nell’ultimo giorno del festival.
Ed è così che, pass-giornaliero alla mano, mi infilo al teatro Giovanni da Udine con l’idea di vedermi 4 film di seguito: Mitsuko Delivers, Six Degrees of Separation from Lilia Cuntapay, Unbowed e The Woman in The Septik Tank. La verità è che a catturare la mia attenzione erano stati soprattutto il primo e l’ultimo film, considerando i due di mezzo un simpatico interludio che avrebbero semplicemente reso il mio Far East-day più corposo. Quello che non immaginavo è che a coinvolgermi maggiormente sarebbe stato proprio Six Degrees of Separation from Lilia Cuntapay, primo lungometraggio di una giovane ragazza Filippina, divenuto tale perché il materiale raccolto eccedeva di gran lunga l’originaria idea di farci un cortometraggio. Il film è un documentario (o Mockumentario come si ama dire oggi) su un’anziana attrice veterana dei film Horror filippini, Lilia Cuntapay.
La M.D.P segue nella sua vita quotidiana la settantenne attrice. Non è nota al grande pubblico, il suo nome non viene ricordato da nessuno degli intervistati, salvo poi venire sempre riconosciuta in foto o in video in quanto icona della strega o del fantasma di almeno un ventennio del cinema horror nazionale. Non ha mai interpretato ruoli principali, non si è mai arricchita, e continua a vivere in una frugale dimora di un modestissimo villaggio, andando una volta al giorno al bar per sapere se qualcuno l’ha chiamata per un provino (lei non possiede il telefono).
Il filo che dipana tutta la narrazione è la notizia che Lilia è stata nominata per la categoria miglior attrice non protagonista per un premio cinematografico nazionale. L’attrice vive questo momento come la ricompensa di una carriera vissuta nell’ombra e la regista l’accompagna con un occhio cinematografico presente e autoreferenziale (talvolta entra nel film con la sua stessa voce), allo stesso tempo delicato e mai indiscreto, in tutti i suoi piccoli spostamenti: mentre fa le prove per un eventuale discorso per la premiazione, mentre si incammina per andare a fare un provino per un film, alzandosi in piena notte per arrivare all’alba sul set, oppure mentre organizza una festicciola per vedere alla tv un’intervista che ha appena rilasciato per Tv Patrol (con tanto di banchettino e foglietto con prenotazione con nome su quattro sedie sgangherate). Lilia ci coinvolge con umanità, simpatia, dolcezza e tanta ingenuità in un mondo insospettabile, dove il confine tra la popolarità di un premio nazionale come miglior attrice e la miseria è tanto labile quanto quello tra una fama reale e una virtuale, dove lei stessa completa la collezione delle locandine dei suoi film disegnandosele da sola e appiccicandosele alle pareti per esibirle con immutato dolcissimo orgoglio.
La donna non manca di ricordare con sincera commozione tutti i registi con cui ha lavorato, così come i grandi attori e la gente della troupe, parlando di loro come di amici intimi quando proprio questi personaggi una volta intervistati non si ricordavano nemmeno del suo nome. Da qui il giochino che dà il titolo al film. La famosa teoria dei sei gradi di separazione che dividerebbero una persona da qualsiasi altra al mondo, qui viene rivisitata come “chiunque lavori nel cinema è a sei gradi di separazione da Kevin Bacon”. L’attore diventa protagonista inconsapevole del film e della carriera di Lilia, la quale con surreale sincerità insiste per menzionarlo nei ringraziamenti per l’eventuale premio. L’atteggiamento candido di Lilia non può non coinvolgere lo spettatore, e la regista se ne appropria mitigando realtà e finzione attraverso l’utilizzo di frammenti di film, interviste e stralci del quotidiano.
Il cinema nel cinema qui non è mero pretesto autoriflessivo o snobismo calligrafico. Delle sequenze visibilmente artefatte (i vari frammenti della proiezione immaginaria di quello che potrebbe dire sul palco) si aggiungono alla straordinaria naturalezza di gran parte della pellicola, mischiando il tenero al giocoso, la riflessione allo scherzo senza mai scadere nella banalità della retorica. Ad un certo punto lo spettatore smette di domandarsi cosa sia vero e cosa no, per lasciarsi completamente coinvolgere da questa buffa anziana. E’ proprio qui che risiede la bravura della giovane Jadaone. Se di Mockumentary vogliamo parlare allora bisogna riconoscerle il merito di aver dipinto col pennello un ritratto più nitido di una fotografia. Gli artifici narrativi danno spessore ad un personaggio reale, dando colore a quelle sfumature che la visione più oggettiva e distaccata di un documentario tout court avrebbe sicuramente lasciato per strada.
E poi – e qui sta la bellezza di un festival – iniziano i titoli di coda , si accendono le luci in sala. Ci sono la regista ma soprattutto Lilia. Sorridente e tenera esattamente come solo la “finzione” del cinema poteva raccontarci. Il teatro è tutto per lei, tutti l’applaudono e la nitida sensazione che ne rimane è che quando un giorno lei racconterà di quel momento, lo farà dicendo che eravamo tutti suoi “amici”.