DOGTOOTH – Giorgos Lanthimos
Tre adolescenti vengono cresciuti nella convinzione che l’unica vita possibile sia all’interno della propria villa e delle sue alte recinzioni, al di fuori solo una realtà cruda e violenta che potranno combattere in un lontano futuro non appena raggiunta la piena maturità. La felicità sta nel grembo materno e in tutte le sue false verità in opposizione alle convenzioni del mondo esterno.
Lanthimos e i suoi canini sono l’esempio di chi tenta d’essere il fautore di un’innovazione stravolgente che andrà a minare le fondamenta del cinema per come tutti lo conosciamo, ma che purtroppo non va al di la del suo misero intento.
Partiamo dall’assoluta negazione della realtà a beneficio di una totalmente fittizia, dove però vigono le medesime regole restrittive di cui si accusa la società dei nostri giorni, con la differenza essenziale che con la ragione e la libertà siamo in grado di farne una lucida disamina, contrariamente ai nostri tristi protagonisti che la subiscono (per quanto apparentemente rosea essa appaia ) perchè immersi nell’ignoranza e nella paura.
La figura genitoriale, che è fondamentalmente rappresentata dal padre con un surrogato di moglie e madre appresso, ci appare inizialmente come una guida benevola in cui confidare e rifugiarsi dalla sporcizia di un mondo ostile, un nido ovattato dove tutto è stato reinventato, persino il linguaggio comune, in cui l’identità primaria di mare non esiste come una lontana distesa d’acqua da raggiungere ne tantomeno un lessico torbido indicante la vagina della donna che muta nella ben più rassicurante tastiera, un’irrealtà calda e rassicurante. Niente di più bugiardo.
I ragazzi sono dei semiritardati in balia di un totalitarismo di cui il pater familias è l’unico depositario, egli plasma la realtà a suo piacimento creando regole,obbiettivi, ricompense, il padrone di tanti inermi schiavi. Gli infanti vivono in ostaggio della propria ignoranza e di tutti quei timori che finora non hanno mai permesso loro neanche solo di immaginare cosa potrebbe esserci al di la dello steccato, eccezion fatta per micini dagli smisurati istinti assassini e misteriose creature spaventose. Essi vivono in un totale stato brado e come cani si leccano, ringhiano e si rincorrono convinti addirittura che dal ventre della madre possano essere generate bestiole oltre che esseri umani. In tutta questa follia essi sono privati di quella libertà intellettuale e decisionale che rende un individuo una persona, scevri persino del diritto di possedere un nome proprio e una conseguente individualità.
La vera ipocrisia della famiglia, come spesso accade, è puntare il dito verso certe convenzioni tipiche della nostra società, cercare di preservarne i figli per poi perseguire in prima persona ciò che si disprezza tanto … e allora vediamo i due despota sollazzarsi con l’industria del porno e concedersi una telefonata a metà mattina, in barba al rifiuto nel progresso e all’anarchia imperante.
Lo spunto dal quale parte il regista greco è assolutamente degno di nota ma vengono sviluppate in modo troppo marginale tutte le dinamiche intorno alle quali ruota quell’esilio forzato, con il risultato di un ritratto incolore e inespressivo. Si indugia troppo sul rapporto che i tre adolescenti hanno con il sesso, una volta assodato che questo è visto come un istinto prettamente maschile e un bisogno da espletare fine a se stesso, si sarebbero dovuti affrontare i molteplici problemi all’inizio della maturità adolescenziale in quel preciso contesto così singolare, aspetto totalmente ignorato. Quella che è la rappresentazione di una condizione mentale assolutamente unica non viene minimamente vagliata attraverso le emozioni dei suoi protagonisti, gli interpreti sono delle maschere inespressive prive di un qualsiasi sussulto e cambio di registro, asettici in un ambiente asettico. E questa desolante staticità non fa altro che rendere il tutto un teatrino con marionette senza fili.
La totale assenza di stati emotivi vengono però in parte compensati da un’atmosfera senza dubbio pesante, le lunghe pause tra un dialogo e l’altro gravano come un macigno su un ambiente claustrofobico dove persino la luce del sole sembra arrivare filtrata, è per cui un ulteriore cruccio che in questo castello di carte si muovano solo ombre incolori anestetizzate.
Ed è questa la falsa riga sulla quale verte l’intera pellicola, colpevole di un rigore espositivo troppo inflessibile per mostrare la vera natura di questa particolare condizione umana, incapace di coinvolgere fino in fondo lo spettatore e fare quel salto di qualità che farebbe di un semplice dramma surreale un’innovazione cinematografica, che rimarrà rilegato invece alla mediocrità del forse più scadente tra i b-movie.
La marcia in più che ci si auspica da un momento all’altro non arriva nemmeno con la rottura dell’equilibrio preesistente, durante quella lieve presa di coscienza della “maggiore” che prende il via con la decisione di darsi un nome e di avventurarsi in quel mondo sconosciuto per quanto esso possa risultare perverso e nocivo.
Questo mutamento e tutte le conseguenze che avrebbero dovuto stravolgere il continuo del film, vengono abbandonate ai titoli di coda, in quello che sarà dal primo all’ultimo minuto, un continuo annusare senza mai assaggiare. Inconcludente.
VOTO: 4.5/10
Regia: Giorgos Lanthimos
Cast: Christos Stergioglou, Michele Valley, Aggeliki Papoulia, Mary Tsoni
Grecia,2009