DEATH TRANCE – Yuji Shimomura
L’invincibile guerriero conosciuto col nome di Grave ha rubato dal Sacro tempio di Tougan una bara che si dice contenga la dea della distruzione. Per recuperare la refurtiva un monaco è inviato dal tempio. Questo porta con se una spada dalla leggendaria potenza, probabilmente l’unica arma esistente sulla terra capace di fronteggiare la dea, ma anche un’arma che può essere sguainata solo da chi è ritenuto degno.
Produzione nipponica destinata all’esportazione, ma che non è mai approdata in Italia. DEATH TRANCE riunisce scenari apocalittici che rimembrano le lande devastate ed i costumi del celebre manga Ken il guerriero (e della pellicola Mad Max), miscelandoli alla tradizione orientale, grazie alla presenza di strutture come templi o vecchie zone di campagna e di tematiche legate al folclore delle terre dell’est.
La matrice fondamentale ricalca la new generation di film d’azione come La foresta dei pugnali volanti o La tigre ed il dragone, lasciando scemare abbondantemente le componenti malinconiche e filosofiche, abbracciando con maggiore veemenza le scene di combattimento e lo spargimento di sangue.
Si susseguono così scene di lotta contro esseri umani, mostri (dai connotati spiccatamente fantasy) e divinità, in un incedere tutto sommato lineare ed a tratti banale. Anche la componente prettamente orrorifica risulta abbastanza debole, lasciando aperte le porte ad un pubblico più eterogeneo, ma anche meno esigente.
Così se il regista Yuji Shimomura fa sua l’esperienza maturata nelle scene d’azione da lui coordinate in Versus, e sfrutta volti noti come Tak Sakaguchi (vera e propria star tra i giovani giapponesi) e Kentaro Seagal (figlio di Steven Seagal, qui alla sua prima apparizione importante), da un altro punto di vista tiene costantemente d’occhio il target a cui indirizzare il suo lavoro, evitando così impennate o notevoli deviazioni dal percorso principale, abbondantemente battuto da suoi colleghi molti anni prima. Altra nota di demerito gli effetti speciali digitali, in particolar modo nella scena finale, una maggiore cura avrebbe donato un aspetto sicuramente meno raffazzonato. Questo auto-imposto freno a mano fa calare la pellicola al di sotto della sufficienza, anche se si tratta di un onesto lavoro, piacevole ed a tratti interessante, ma estremamente derivativo.