DEATH PROOF – Quentin Tarantino
Nonostante alla sua uscita sia stato accolto alquanto freddamente, sopratutto dalla critica nostrana, che non ha lesinato di elogiare il sopravvalutatissimo Planet Terror, l’ultimo lavoro di Quentin Tarantino rappresenta nell’ambito del progetto Grindhouse, il migliore dei due. Ovviamente quando escono due prodotti parte di un unico esperimento cinematografico (in questo caso si può comunque parlare di un tentativo di omaggiare il drive-in movie degli anni ’60/’70) nascono sempre due fazioni opposte di pensiero.
E’ inevitabile quindi che chi trovi stupidino e inutile lo zombie movie diretto da Robert Rodriguez, si entusiasmi a mani aperte per questo primo episodio incentrato sulla magistrale figura di Kurt Russell, stuntman psicopatico che trova il suo più totale appagamento sessuale nel provocare incidenti mortali ai danni di un gruppo di discinte starlette, dedite ad alcool e marjuana.
Tarantino continua a spiazzare con il suo stile personalissimo, debitore del B-movie ad aeternum e stravolgitore del classic script per antonomasia. La sceneggiatura di Death Proof richiama in un certo senso quella di un cult rape and revenge come Day of the Woman con un’ora abbondante in cui si vede soffrire la vittima e gli ultimi 30 minuti dediti alla rivincita della stessa nei confronti del suo assassino.
Ed in effetti Stuntman Mike è a tutti gli effetti uno stupratore, solo che usa la sua Chevrolet con tanto di teschio stampato sul cofano al posto del pene. Il terrificante frontale a cui assisteremo a metà film (una vera e propria sequenza capolavoro) non è altro che un derivato dell’atto sessuale da parte di un deviato che, con il senno del poi, rappresenterà una delle figure più becere e disgustose (ma altrettanto realistiche) del new villain. Nella seconda parte del film, invece, comincia la vendetta, ed in questo caso Tarantino ripesca l’immagine tanto cara nei suoi film della donna forte e vendicativa. Un monito agli stupratori e assassini, il sesso debole non è più debole ma ti prende a cazzotti, ti spara addosso, ti sfonda l’auto a colpi di spranga e infine (ma solo dopo la parola “fine”) si abbatte sul tuo volto spappolandolo con un calcio volante, un’ultima scena che fa tornare alla mente il terribile flashback di Tenebre in cui Eva Robin’s infilava il suo tacco a spillo nella gola del malcapitato Anthony Franciosa da ragazzo.
La colonna sonora, al solito, è una ricca compilation di italo soundtrack con inserti estratti da L’uccello dalle piume di cristallo e altri crime movie italiani, a riprova del grande amore che il regista americano ha nei confronti della nostra vecchia sottoproduzione. Death Proof è anche un omaggio ai car movie degli anni ’70 con un inseguimento mozzafiato, adrenaliche sequenze e tensione che sprizza da tutti i pori, con rimandi ad Alfred Hitchcock e Tobe Hooper.
A differenza del segmento di Rodriguez, Tarantino riesce a dare un senso a quello che fa, un motivo, un’essenza che non è mero riciclaggio ma urgenza creativa di chi, per il cinema vero, ha un’incontenibile passione.