DALLAS BUYERS CLUB – Jean-Marc Vallée
Siamo a metà degli anni ottanta, in Texas. Ron Woodroof (Matthew McConaughey) è un elettricista e cowboy da rodeo che vive la sua vita all’insegna dell’eccesso, tra alcol, droghe e donne facili. In seguito ad un piccolo malore l’uomo scopre di essere sieropositivo e la sua vita cambia all’istante, trasformandosi in una continua lotta per la sopravvivenza.
La causa del protagonista è, oltretutto, ostacolata dalle case farmaceutiche americane che non gli permettono le cure necessarie, in quanto ritenute illegali. L’uomo inizia così a spacciare medicine a chiunque le voglia, comprandole in Messico, in cambio di una discreta somma di denaro, aiutato dal travestito Rayon (Jared Leto), con cui apre l’associazione Dallas Buyers Club, da cui il film prende il nome.
Settimo lungometraggio del regista canadese Jean-Marc Vallée, Dallas Buyers Club è un film tratto da una storia vera che ha (forse) un contenuto da trasmettere ma davvero poco da dire a livello cinematografico. La sensazione raccolta all’uscita dalla sala è che la linfa del messaggio trasmesso è stata inserita in un contenitore troppo grande, esprimibile anche in un documentario televisivo di mezz’ora, più che con il classico film da due ore a sfondo sociale, con poche idee di messa in scena e uno script banale e traboccante di cliché.
A livello di sceneggiatura, infatti, il film non offre niente di realmente interessante, nemmeno a livello di scrittura dei personaggi poiché, se da una parte abbiamo un’ottima interpretazione sia di McConaugey che di Leto, dall’altra il plot li spinge verso direzioni prevedibili e li riempie di battute banali. Lo stesso vale per Jennifer Garner, che non ha, fra l’altro, nemmeno le capacità attoriali degli altri due. La regia rimane poco ispirata per tutta la durata della pellicola, nessun guizzo o tocco elegante, si muove anonimamente e senza pathos, sebbene sembri risollevarsi in un paio di momenti riusciti (la preghiera di Ron, il tentativo di convincere Rayion ad unirsi al club), in cui la messa in scena sembra esser ponderata, malgrado non proponga nulla di nuovo. Una fotografia perfettamente nella media definisce un quadro tecnico poco più che mediocre.
Pur non essendo un brutto film, è abbastanza curioso il fatto che Dallas Buyers Club sia stato osannato così tanto, arrivando a sei candidature all’oscar pur non avendo assolutamente nulla che lo elevi sopra il film sociale medio americano, ad eccezione di due ottime interpretazioni (che potevano esser sfruttate molto meglio) ed un paio di momenti piuttosto riusciti seppur non memorabili. Menzione speciale ad un sound design odioso e ridondante, che ogni cinque minuti tende a ripetere, dall’inizio alla fine della pellicola, delle meccaniche estremamente abusate ed alla lunga estenuanti.