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Da “LA CASA” a “DRAG ME TO HELL” – Il cammino di Sam Raimi

Written by Cristian Tomassini

Si stavano chiudendo gli anni ’70 quando Sam Raimi, accompagnato dall’amico Bruce Campbell, aveva da poco finito il corto WITHIN THE WOODS e si preparava ad utilizzarlo come trampolino di lancio per volare sopra aspiranti, secondo lui, finanziatori (badate bene, non produttori!). Una simpatica faccia tosta ma, specialmente, tantissima voglia di fare. Dopo una incursione in quel mondo totalmente indipendente che ha caratterizzato LA CASA nell’ormai lontano 1981 (curata da Giulio De Gaetano) voliamo direttamente verso il recentissimo DRAG ME TO HELL (con una analisi operata da Cristian Tomassini) per analizzare due film distanti nel tempo ma non nell’approccio.

Inutile dire che LA CASA fu girato nei weekend, in oltre un anno e mezzo, grazie alla buona volontà di tutta la troupe. Quanti sono i registi che oggi si lanciano in questa impresa? 350.000 dollari il gruzzolo messo da parte per concludere ogni aspetto del film, effetti speciali e post-produzione (assolutamente da non intendere nel significato e nella pratica attuali) inclusi.

Ricordiamo che tale fu la “fede” di Raimi nel film che lo portò anche ad inventare la shakey cam, nient’altro che una steadycam montata su una sorta di impalcatura per fornire un effetto movimento senza eccessi da handcam (come i vari BLAIR WITCH PROJECT o CLOVERFIELD). Per cui via con le corse nei boschi, la visuale in soggettiva del male che attanaglia le pareti cadenti dello chalet e così via. Questo chalet, inoltre, era una vera e propria casetta nel bosco (andata a fuoco poco tempo dopo le riprese) mancante però della botola ma Raimi, senza scoraggiarsi, utilizzò la propria cantina per schivare il problema.

Insomma fare di necessità virtù era l’imperativo del gruppo di scalmanati che, non solo sapevano districarsi tra tutte queste tipologie di problemi, ma avevano anche fiuto: basti pensare che già pensavano ad evitare l’X-rating negli USA (una vera e propria mazzata ai tempi) scegliendo di utilizzare del latte diluito al posto del succo di pomodoro per il sangue degli indemoniati.

Tutt’altra musica quella suonata con DRAG ME TO HELL, a partire dal budget oscillante intorno ai 30 milioni di dollari. Di anni ne sono passati poco meno di trenta, e la prospettiva è cambiata totalmente per il regista Sam Raimi, ormai produttore sempre indaffarato (sua la GhostHouse Pictures) e regista di grido (la trilogia di Spiderman). Da molti il suo ritorno all’horror è stato visto come una presa in giro a scapito degli aficionados, da altri un graditissimo back-to-the-origins, comunque contestato o amato senza vie di mezzo.

DRAG ME TO HELL è stato scritto ben dieci anni fa dai fratelli Raimi (Sam e Ivan), immergendo nuovamente le mani nell’immaginario esagerato e dark, come un fumetto presentato dal buon vecchio Zio Tibia, con la preliminare (e commerciale) scelta di fermarsi al divieto PG-13 e allargare il più possibile il bacino di utenza. Ovviamente siamo lontani dai budget di altri suoi film, ma avere alle spalle una base economica ben solida come questa penso possa dipingere un bel sorriso sulle labbra di chiunque.

Inizialmente scritturata per il ruolo di protagonista fu Ellen Page, dimissionaria a causa di altri impegni e sostituita (malamente) da Alison Lohman, abbastanza inespressiva e distaccata dal contesto. Lorna Raver invece incarna perfettamente il ruolo della zingara, mescolando all’inglese parole di origine ungherese e caricaturizzando il suo personaggio in bilico tra il grottesco e l’ironico.

Direttamente da LA CASA 2, Raimi si è portato dietro il direttore della fotografia Peter Deming per cercare di dare un aspetto visivo reale alla pellicola, utilizzando quanto più possibile luci naturali. Per esempio nella strada Deming si è servito sia dell’illuminazione dei lampioni che di alcune luci artificiali, colorando l’ambiente di un verde-blu non altamente contrastato ma realistico. Insomma un modo di dirigere una pellicola riflettendo su quanto fatto nel passato (l’ironia è figlia de L’ARMATE DELLE TENEBRE o LA CASA 2) gettando un occhio ai fruitori di oggi, popolo probabilmente meno smaliziato di allora. I tempi sono cambiati e la disponibilità economica (meritatamente) pure.

(Giulio De Gaetano)

Oggi, in piena crisi economica, il cinema horror non poteva non farsi sentire  almeno con un soggetto che ricordasse o che avesse a che fare con questi tempi di economia malsana.  Nel 1968, in piena contestazione, ci provò George Romero, pochi anni dopo Tobe Hooper parlò della carenza di benzina negli USA, ancora dopo sempre Romero ci parlò del consumismo sfrenato, poi John Carpenter ed Essi Vivono,  Brian Yuzna con Society, insomma l’Horror come genere non è mai stato così socialmente inutile.

Ecco che nelle sale c’è questo Drag Me To Hell, con una trama molto semplice.

Christine Brown (Alison Lohman) è una ragazza che ha vissuto infanzia ed adolescenza in campagna e che ora vive a Los Angeles, lavora in una banca, ed il suo ruolo è accettare o meno prestiti, mutui o proroghe di pagamento. C’è aria di promozione nel suo posto di lavoro, ma la promozione in banca si ottiene con spregiudicatezza, invidia e cattiveria. Proprio per questo la povera Christine, che in cuor suo cattiva non lo è ma deve adeguarsi, è costretta a negare una proroga per il pagamento di un immobile ad una signora. L’anziana signora Ganush, tuttavia, è molto strana d’aspetto, ha un occhio di vetro, delle unghie gialle e lunghe ed inoltre è  una zingara, popolo famoso per tramandarsi spesso l’arte della magia e del malocchio. La povera Christine si trova così colpita da una maledizione potentissima: uno spirito (la Lamia) la perseguita cercando di trascinarla con se all’inferno.

Dall’inizio il film lascia veramente pochi attimi di tregua allo spettatore, Raimi è maestro nel tenere sulle spine e nel creare contraccolpi, sequenze disorientanti e, a volte, al di là del grottesco. Vomito verdastro a fiotti, fazzoletti assassini, mosche irriverenti, schizzi di sangue abnormi, vecchie assassine  senza dentiera, demoni volanti che possono impossessarsi persino di ovini; insomma un mix letale ed incredibile di horror, splatter, comicità, dialoghi divertenti e sana e santa paura che fanno di questo Drag Me To Hell uno degli horror cinematografici più belli degli ultimi anni.

Fantastica la scena dell’incontro della ragazza con i genitori del fidanzato, una coppia di borghesi allo stato puro, odiosi e con la puzza sotto il naso;  Raimi si diverte a prendere in giro le classi abbienti e le banche con sequenze memorabili utilizzando paradossi e dialoghi cotti a puntino per divertire e far terrorizzare lo spettatore.

Ma c’è comunque una cosa da dire: Drag Me To Hell è un horror post crisi e si vede, a volte spicca per irriverenza e genialità, ma i veri maestri dell’horror sociale sono lontani.  Raimi non è Romero, Cronenberg o Carpenter, ma un bravissimo artigiano dell ‘orrore, non un fustigatore di società. Diciamo che si rispecchia nelle parole di Roger Corman:  “metti all’interno del soggetto un 10 per cento di commento sociale per rendere un pò rilevante il film e poi divertiti come vuoi a far impazzire la gente di paura“.

(Cristian Tomassini)

Posted in Cinema by Cristian Tomassini on dicembre 9th, 2011 at %H:%M.

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