VINTERSORG – “Solens Rotter”
L’artista svedese Andreas Hedlund, meglio conosciuto come Vintersorg (anche nei Borknagar e Otyg), ogni tanto persegue la strada solista, come in questo album dal titolo Solens Rötter uscito per la Napalm Records.
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L’artista svedese Andreas Hedlund, meglio conosciuto come Vintersorg (anche nei Borknagar e Otyg), ogni tanto persegue la strada solista, come in questo album dal titolo Solens Rötter uscito per la Napalm Records.
“Furious Winds / Locusts” getta immediatamente le basi che saranno rispettate e seguite nelle successive songs: melodia e cattiveria. Riff melodici, assoli ben eseguiti, ritmiche serrate e specialmente tastiere che si pongono come manto a tanta potenza. “The Mud And The Blood” rispetta le regole dettate con riff stavolta più melodici e aperti, qui è la voce a farla da padrone in quanto a carica nefasta.
Molta strada hanno percorso i norvegesi Green Carnation da “Journey To The End Of The Night”, compiendo la coraggiosa scelta di incidere un disco completamente acustico. Atmosfera, feeling, calore e malinconia sono i punti cardine che echeggiano nelle orecchie dopo l’ennesimo ascolto di questo album. Avanza come una marcia “Sweet leaf”, con un cantato solenne e caldo fino a metà canzone quando la voce si alza assumendo un registro simile a quello del Bono Vox più melodico mentre il basso accompagna l’incedere fino al concludersi della marcia.
Proseguendo l’evoluzione che li ha trascinati dal dark-black degli esordi all’attuale miscuglio di industrial-elettronica e heavy metal i Samael espletano pienamente il significato della parola evoluzione. Sono stati capaci di cambiare, mettersi in gioco alle volte intuendo in tempo il trend che avrebbe imboccato il mercato, altre volte compiendo scelte che avrebbero potuto siglare il loro suicidio. Tuttavia il fatto che a distanza di 16 anni da Worship Ritual si continui a parlare di loro, palesa la bontà della proposta che tutt’oggi gli svizzeri riescono a lanciare in pasto ai fan.
Una delle recensioni più difficili che mi siano mai capitate tra le mani. La premessa è obbligatoria: il debut album “Back to the time of splendor” l’ho amato alla follia per merito delle intuizioni geniali insite nelle composizioni stesse, articolate tramite diversi respiri incapaci di annoiare l’ascoltatore anche nello stesso svisceramento della forma canzone convenzionale. L’ottimo ed originale connubio tra parti progressive e death, malinconiche e ariose, acustiche o elettriche, thrash o genuinamente rock progressivo, non si perdeva mai in un contenitore troppo stretto per mantenere tutto, ma si dilatava fino agli estremi fisici del mezzo, profondendo freschezza innaturale in ogni brano.
Band finlandese nata da una costola dei Before The Dawn per volere di Tuomas Saukkonen che durante la stesura delle songs che avrebbero cesellato “The ghost” si rese conto di aver composto troppo materiale, riversato dopo in questo nuovo contenitore. Il sound dei Dawn Of Solace non si discosta molto da quello proposto dal gruppo madre, diversificandosi nel leggero calo delle velocità, nella maggiore cura e presenza delle melodie ed in una marcata cupezza sia nelle atmosfere che nelle liriche.
Dopo 4 anni di distanza da “Beyond daylight” i tedeschi Vanden Plas sfornano un album che detronizza immediatamente qualsiasi altra band (prog) che si era insidiata nel 2006. Questo picco grazie anche alle forti influenze maturate dai membri del gruppo che si sono dedicati ad opere quali “Abydos” (il solo Andy Kuntz) e “Nostradamus”, sagomando ancora più marcatamente il proprio stile e assorbendo nuove suggestioni che sono andate a convergere nell’album.
Immaginate di trasfigurare la vostra anima in un corpo abbandonato nel cuore delle tenebre come un simulacro in cerca di sepoltura. Lasciate che l’oscurità vi avvolga addentandovi con i pensieri più tristi che la memoria potesse partorire e chiudete gli occhi. Sentite dolore alle orecchie a causa del silenzio, un vuoto assordante che raschia cercando di estirpare la malinconia per gettarne dentro altra in un ciclo senza fine. Siete soli. Vittime delle vostre stesse paure, schiavi della vostra ombra, ciechi nel denso miasma.
Il secondo lavoro degli inglesi Editors è decisamente uno degli album più importante dell’intera scena indie-rock, anni luce avanti sia rispetto al precedessore The back room che al poco ispirato In This Light and On This Evening. Dediti ad un alternative rock dalle influenze che spaziano dagli Arcade Fire ai Coldplay, passando per i Radiohead, il gruppo britannico fa della melodia il proprio portabandiera, andando a toccare corde emozionali mai banali o scontate.
Attivi sin dal 1994, natii israeliani, i Bishop of Hexen riescono a sfornare il secondo full length, grazie al promo “Unveil the Curtain of Sanity” che ha permesso loro di accasarsi presso la CCP records per ben tre album. L’intro “Unveil the curtain of sanity”, nenia emblematicamente oscura, apre le danze al black sinfonico di “Eyes Gaze to a Future Foreseen” che subito mostra un uso intelligente della batteria, mai troppo scontata o ripetitiva, che ben si amalgama ai continui cambi di atmosfera.