BLING RING – Sofia Coppola
Tutto ha inizio con un articolo, pubblicato nel marzo del 2010 su Vanity Fair e scritto da Nancy Jo Sales (chiamarsi “Saldi” di cognome non può che spianare la strada per una carriera in quella redazione!). Il pezzo, intitolato “The Suspects Wore Louboutins”, svela in sapiente equilibrio tra gossip e denuncia chi si cela dietro alle incursioni nelle ville di Hollywood che in quel periodo scomodavano la serenità delle stars.
A dispetto delle prime ipotesi, legate a una criminalità meno naif, le “gesta” vengono ricondotte a un gruppo di ragazzini da high school della classe media che, con pochi accorgimenti e molta voglia di elevare lo status socio-economico, si è introdotto ripetutamente nelle abitazioni sottraendo vestiti, gioielli e feticci ai loro divi preferiti. La storia ha dell’incredibile, ma è tutto vero: chiedete a Paris Hilton (che nel film apre generosamente la porta di casa alle telecamere e al pubblico ludibrio), Orlando Bloom o Lindsay Lohan, vittime del (come battezzato dai media) “Bling Ring”.
Il passo successivo ed inesorabile è dunque la pellicola “based on”, ghiottissima occasione per Sofia Coppola (Lost In Translation, Il Giardino Delle Vergini Suicide) di miscelare alla rinfusa glamour, crimine e ricerca psicosociale sui teenagers americani e relativi sogni di gloria; l’autrice descrive il film come “un monito”, ma sfortunatamente per lei il messaggio è tutt’altro che incisivo. Le incursioni di Nicki (Emma Watson, Harry Potter, Noi Siamo Infinito) ed amici nelle sfarzose abitazioni hollywoodiane sono tradotti in un mix di commedia kitsch e denuncia della generazione-reality.
La Coppola sta guardinga in bilico, il suo stile è non averne uno preciso. Ed orchestra un’epopea dell’ossessione per la celebrità che è troppo “cool” per fungere da avvertimento. Col risultato che il “Bling Ring” rischi di apparire una gang più famosa che famigerata, uscita in qualche (perverso) modo vincitrice dalle devianze minorili. Se si tratta di cronaca vera, perché il film esagera in toni, luci e suoni? Perché riempire di brillantini un film che sarebbe stato molto più efficace se diretto con un profilo molto più basso?
I flash da discopub e gli aggressivi beat elettro hip hop restituiscono un ritrattino di una gioventù senza bussola molto più divertita che divertente. La giovane banda è antipatica, stereotipata (ma saranno stati davvero un tale miscuglio, brutta copia del Breakfast Club?) e lontana. Escluse le sequenze di danze selvagge, foto su Facebook, minigonne e cocaina, resta davvero poco. E se questo trittico è forse necessario per descrivere il lifestyle di chi, teenager, sogna l’Hilton hotel e l’Hilton Paris, priva purtroppo il film di incisività e profondità. Gli stralci di interviste ai protagonisti, pentiti e sommessi, sono interessanti ma ridotti all’osso, e si perdono fra le luci dei club losangelini.
I fatti di Bling Ring saranno forse un monito dunque, ma per colpa della Coppola e della sua direzione stonata, la riflessione va ricercata faticosamente nelle pieghe del film. La sensazione finale è quella di essere stati novanta minuti in un locale alla moda che non ci si può permettere, con gente che non ci piace, cocktails annacquati ed Hermione al posto di Sara Tommasi. In un tangibile disagio.