BLAIR WITCH – Adam Wingard
Tra le poche novità cinematografiche introdotte sul finire del millennio, è possibile sicuramente annoverare l’horror movie The Blair witch project, capostipite di un filone di pellicole catalogate sotto la label “Point Of View”. Questi titoli dal linguaggio filmico simile, hanno avuto disparati esiti al botteghino ed hanno a loro volta generato una infinità di sotto-varianti dall’altalenante qualità.
In realtà, per collocare meglio il fenomeno occorre ritornare più indietro nel tempo, negli anni ’80, quando venne prodotto il vero precursore di film come questo, il capostipite dei cosiddetti “found-footage”, lavori dove si presume venga ritrovato un girato da destinare alla realizzazione di un documentario la cui post produzione è da affidare a terzi in quanto i realizzatori delle riprese sono morti nelle circostanze narrate dalle immagini. Parliamo del chiacchieratissimo Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato (1980).
Sul finire del millennio (1999) si è pensato di riportare in auge il genere, aggiornandolo con le tecnologie di allora che consentivano di poter girare piccoli documentari fatti in casa con qualità accettabili, senza dover scomodare grosse produzioni. Così che nacque l’idea del primo The Blair witch project dove un gruppo di ragazzi armati di handycam e cinepresa professionale, decidono di interessarsi dei fatti riguardanti la strega di Blair (antico nome di Burkittsville) e, soprattutto, di alcune misteriose sparizioni avvenute proprio in quella zona, dove si pensa che anticamente venne bruciata una strega. Ovviamente per i tre ragazzi le cose non andarono per il meglio, cosa che sicuramente non possiamo dire per il film che, al contrario, andò molto bene, almeno inizialmente, prima che la gente si rendesse conto di essere di fronte ad una riuscita campagna marketing, probabilmente la migliore se consideriamo il budget del film.
In effetti il tam-tam mediatico creato attorno alla vicenda fece crescere l’attesa nei confronti del film, soprattutto dopo l’uscita del primo trailer che calcava la mano sulla veridicità delle riprese e sulla spontaneità degli attori. Il film, linguaggio innovativo a parte, era un low-budget, con alcuni guizzi di regia e un montaggio efficace, che rende bene lo scoraggiamento e la tensione all’interno della foresta. Tuttavia da qui al definirlo film vero e proprio, il passo è lungo.
Questo terzo capitolo, chiamato semplicemente Blair Witch, che cronologicamente riprende a narrare i fatti 17 anni dopo il primo film, vede come protagonista il fratello di Heater Donaue, impegnato nella realizzazione di un ennesimo documentario (come la sorella scomparsa), supportato dalla sua ragazza e da alcuni suoi amici. Obiettivo quello di far luce sulla scomparsa della sorella. Un plot fin troppo simile a quello del primo capitolo che, purtroppo, non aggiunge molti elementi di novità sia al genere sia al soggetto stesso. Infatti, se il primo titolo spiccava per l’originalità della codifica filmica, qui si registra solo un consolidarsi della stessa, grazie all’uso di riprese fatte con un drone e l’utilizzo di camere nascoste in una sorta di auricolare, niente più di un pretesto per giustificare le riprese a ciclo continuo.
Interessante nel dipanarsi della trama, la presenza di un secondo gruppo interessato al mistero della strega di Blair, il quale riesce a spezzare le troppe coincidenze con il primo capitolo, ma non si procede oltre nell’inventiva. Blair Witch arriva quasi vent’anni dopo il capostipite, di acqua ne è passata parecchia sotto i ponti, la componente novità è venuta meno ed è difficile che una regia più compiuta riesca a risanare la genuinità di un prodotto che ha detto quanto doveva dire molti anni prima.
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