AMERICAN PSYCHO – Mary Harron
Wall Street, seconda metà degli anni ottanta. Patrick Bateman (Christian Bale) rappresenta la punta di diamante di un crocevia di denaro, un uomo-simbolo dedito alla cura della propria persona, specialmente in ottica di immagine da presentare. Una ricca classe sociale dove sperperare e intascare denaro di giorno, l’assassinio incontrollato e feroce di notte.
Nessuna possibilità di guardarsi alle spalle e fustigarsi per intraprendere il percorso lungo la via di Damasco, un caustico ordine delle cose destinate a frantumarsi sotto la bandiera del consumismo e del classismo. Società finanziarie che nascono, si espandono, si contraggono e muoiono; esseri umani che ampliano il proprio portafoglio (o non lo hanno nemmeno), sorridono (o non piangono) e vengono trucidati al momento del loro massimo splendore (o dell’ultimo goccio di scotch raschiato da una bottiglia). Questo è il mondo di Patrick Bateman. Questo è il mondo dipinto nell’omonimo romanzo di Bret Easton Ellis.
Il racconto di Mary Harron procede lungo binari più soft, rispetto all’impeto esplicito del romanzo, ma riesce comunque a canalizzare il messaggio dello scrittore, sebbene con minore impatto emotivo. Macchina da presa focalizzata su un Christian Bale in ottima forma, paesaggi cittadini notturni persi in ellissi di morte e stanze claustrofobiche dove la mattanza è l’unico verbo. American Psycho riesce nel suo messaggio: non c’è macchia che possa essere lavata.