AMER – Hélène Cattet, Bruno Forzani
AMER è , prima di qualsiasi altra cosa, un film sui sensi e per i sensi. Criptico, enigmatico sfuggente nella sua precaria intellegibilità, ma che si riappropria del diritto esclusivo e precipuo che il cinema vanta su qualsiasi altra arte narrativa: la sinestesia. Il filtro razionale della narrazione viene eluso, mentre vengono pizzicati i sensi, in una percezione quasi astratta di quello che avviene sullo schermo.
La “parola” ha storicamente una natura letteraria e il duo Cattet/Forzani decide di farne a meno, stimolandoci sensorialmente. I suoni e i rumori ci avvolgono nell’atmosfera, la macchina da presa accarezza ogni immagine e unita a un montaggio con echi da videoarte, ci permette di avvertire il tatto e percepire gli odori.
La pellicola è un film sul cinema, pensato per il cinema, scritto e diretto da due cinefili. Evidenti gli ammiccamenti a Bava e, soprattutto, Argento. Di quest’ultimo la ricerca del frammento, la visione spezzata, l’ossessione del particolare, l’insistenza del dettaglio. La storia del cinema è sempre stata caratterizzata dai tentativi di valicare i limiti dello schermo, rimandando a uno spazio percepibile, teoricamente infinito, e questo è senz’altro il vero grande pregio di AMER.
La storia si dipana in tre momenti chiave della vita della protagonista. Un’infanzia cupa, intrisa di fantasie e terrori in cui le mura domestiche divengono una prigione onirica. Un’adolescenza repressa, in cui la presenza monolitica della madre limita in qualche modo le curiosità carnali. La terza parte ci riporta nella villa di famiglia, dove le stesse paure infantili divengono concrete nel misterioso finale. Il processo di crescita a cui assistiamo nelle tre differenti stagioni viene rappresentato attraverso il vero protagonista della storia: l’erotismo, vissuto attraverso una sensualità quasi tattile e contraddistinto da un voyeurismo ossessivo.
I dettagli sugli occhi e sullo sguardo ritornano con un’insistenza ridondante. Lo sguardo poi è frammentario, sollecitato ma spesso frustrato. Il film richiama una scopofilia che si infila tra i buchi della serratura, specchietti retrovisori, occhi inanimati di angoscianti dipinti sulle pareti. Il vento accarezza le sottane, la luce filtra attraverso vestitini leggeri invitandoci al desiderio. Molte delle soggettive sono non dichiarate o lasciate in sospeso. Ci si domanda chi stia guardando. Un occhio onnisciente pedina Ana e la sensazione che se ne ricava è che la soggettiva sia proprio la nostra, spettatori invitati ad abbandonarsi a queste pulsioni scopiche e terrificanti.
L’angoscia infantile si protrae fino all’età adulta. La stessa mano vestita di un guanto in pelle nera impedisce ad Ana di gridare sia da bambina che da donna. Il terrore non è svanito e la maturazione sessuale, vissuta nei tre periodi chiave, ha come unica terribile conseguenza quella di inverare concretamente le sue paure. Il binomio sesso/terrore è presente e si infila sotto la pelle dello spettatore. Alla fine Ana aggredisce, infilando una lama nel collo del tassista. Sembra la rivalsa della protagonista sul suo aggressore. Ma è veramente così? Nel finale un uomo completamente rivestito di nero (presumibilmente lo stesso della mano) la insegue, e la fuga di Ana si conclude davanti al cancello chiuso della sua villa che le impedisce di raggiungere l’esterno.
Ana è distesa su un lettino dell’obitorio, nell’ultimo frammento di secondo del film vediamo i suoi occhi schiudersi lasciandoci in eredità il dubbio. È morta davvero? E’ stato solo un viaggio nel solipsismo caotico ed emozionale di una persona? Sono gli stessi Forzani e Cattet a dichiarare che lo spettatore ha gli elementi per decifrarne il plot, nonostante si tratti di un film in cui la componente narrativa è piuttosto scarna.
Allora io ci provo.
Il sesso viene rappresentato attraverso espedienti e virtuosismi visivi che ne evidenziano la morbosità. Lo stesso occhio “affidato” allo spettatore è intriso di peccato, quasi come se nel farsi assoggettare in quel pedinamento visivo ci si accollasse anche un senso di colpa. Il terrore nasce fin dall’infanzia tra le mura famigliari e la fuga si arresta davanti al cancello della propria villa. Le uniche sequenze colorate e vivaci sono quelle esterne al perimetro casalingo, e lo sguardo rigido e colpevole della madre potrebbe sembrare l’espressione di chi custodisce un terribile segreto. Come nella tradizione pirandelliana, i veri orrori accadono in casa e forse l’uomo nero è la raffigurazione di una violenza domestica, nascosta da una madre omertosa.
Qualsiasi sia la risposta, il film si tinteggia di notevole espressività nei momenti in cui introduce e conclude la vita della protagonista. La parte centrale appare invece stancante e lacunosa, incapace di supportare la curiosità iniziale e la tensione visionaria del finale. Nel fare un film per amore del cinema, i due autori eccedono in virtuosismi (a volte fine a se stessi) che appesantiscono la visione rendendo “calligrafica” questa affascinante opera prima.
Nel complesso un film sicuramente interessante col difetto di far trapelare la volontà dei due autori di sottolineare con ogni espediente possibile il proprio talento e la propria conoscenza del cinema, nello specifico di un genere in particolare, il giallo/horror italiano anni 70.
VOTO: 6/10
Regia: Hélène Cattet, Bruno Forzani
Cast: Cassandra Foret, Charlotte Eugene-Guibbaud, Marie Bos, Bianca Maria D’Amato, Harry Cleven, Jean-Michel Vovk, Delphine Brual, Bernard Marbaix
Produzione: Eve Commenge, Francois Cognard
Montaggio: Bernard Beets
Italia, 2009