A.C.A.B. – Stefano Sollima
L’acronimo che titola il film di Stefano Sollima (già regista di serie tv come Romanzo Criminale e La Squadra) è lo stesso che campeggia su molti muri italiani e non, simbolo universale del disprezzo indiscriminato nei confronti delle forze dell’ordine.
Quattro letterine tradotte nel racconto delle vite di tre poliziotti del reparto mobile di Roma: l’impulsivo Cobra (Pierfrancesco Favino, Romanzo Criminale, Saturno Contro), Negro con le sue dispute familiari (Filippo Nigro, La Finestra Di Fronte, Le Fate Ignoranti) e Mazinga, caposquadra iper–resposabilizzato. Tre modi di affrontare una professione probante e le proprie debolezze. Ma anche modi differenti di gestire forza e violenza, affetti e famiglia, attacco e difesa. Il confine tra uso e abuso del ruolo di celerini è sottile, lo impara presto e a sue spese anche Adriano (Domenico Diele, Paura 3D), giovane recluta che verrà svezzata ed educata dai tre “vecchi”. Ma che ne contempo rappresenterà per questi ultimi uno specchio per riconsiderare loro stessi e il modo di rivestire il ruolo di agenti di polizia.
Dalla guerriglia da stadio alle manovre di sfratto forzato, passando per l’anticamera di drammi extralavorativi, Sollima offre uno spaccato che – deo gratias – è l’antitesi delle stucchevoli e artificiose serie tv in divisa e addirittura confeziona un prodotto vagamente esportabile, dal taglio assai meno provinciale di molte pellicole made in Italy (basti pensare alla regia action, qualche sboronata d’effetto e alle esose musiche a volte fin troppo sulla scia hollywoodiana). Adattando l’omonimo libro dello scrittore e giornalista Carlo Bonini e conscio del fatto di trovarsi tra il fuoco della retorica buonista e quello dell’esasperazione della figura del poliziotto cattivone, Sollima opta per la terza via, quella del più semplice da percorrere: ogni impennata di brutale realismo viene subito controbilanciata da un guizzo di ammiccante pentimento e di riflessività che a tratti puzza di compensazione “family friendly”.
Un esempio? L’allusione al nonnismo, rappresentato fugacemente come un crudele rito di iniziazione (definito beffardamente “fraternizzà”) che però sfocia altrettanto rapidamente in un brindisi di birra e tante care pacche sulle spalle. E questa prudenza è forse l’unico peccato, perché in questo modo il nucleo del microcosmo indagato non viene totalmente centrato, l’empatia sfugge, la narrazione cincischia attorno all’eterna lotta tra il bene e il male dell’animo umano. A.C.A.B. è come un discorso espresso con un linguaggio molto gradevole ma che non convince l’interlocutore né di una tesi né del suo contrario. Con la volontà di descrivere molti risvolti, A.C.A.B. ne affronta la maggior parte in maniera un po’ semplicistica e neutralizzata.
Il problema di A.C.A.B. è questo, puramente teorico, perché altrove fila tutto liscio: Sollima conduce bene le operazioni e Favino, Nigro e Giallini sono la triplice prova vivente che di attori maiuscoli ne abbiamo anche noi, basterebbe impiegarli bene. Piccoli accenni ai più eclatanti fatti di cronaca recenti, dai fatti della Diaz di Genova all’omicidio del poliziotto Raciti e del tifoso laziale Gabriele Sandri, arricchiscono il mosaico sociale costruito dal film. Incompleto, come detto, ma tutto sommato stimolante. Quindi, di fronte ad un’operazione italiana insolitamente curata, non è assolutamente il caso di fare i puntigliosi oltremodo.