MICKEY ONE – Arthur Penn
Mickey è un intrattenitore di night club che conduce la sua vita tra donne, divertimento e lavoro nei locali. Tutto cambia quando la malavita mette sotto torchio il suo datore di lavoro per una mancanza non giustificata. Egli non sa nemmeno di che si tratti ma deduce di essere alle strette e di non avere scampo. Indaga sull’accaduto ma, ottenendo solo una manciata di indizi inconsistenti, decide di sparire, nascondere le proprie tracce e annullare la propria identità.
Inizia con i lavori più umili, poi con l’aiuto di un piccolo impresario teatrale ricomincia a fare spettacoli nei locali con un discreto successo. Conosce una donna bellissima e inizia una relazione con lei. Nonostante questo continua a vivere in un incubo persecutorio, convinto di essere pedinato e minacciato da ogni persona che incontra o che, semplicemente, lo guarda.
Sono sufficienti titoli di testa e pochi secondi di pellicola per intuire la tipologia di mondo in cui Arthur Penn (al suo terzo lavoro) si appresta a farci vivere. Le prime immagini ci giungono come sconnesse e sgrammaticate: Mickey, vestito con giubbotto e guanti, fuma un sigaro in mezzo a una sauna accanto ad una manciata di uomini in asciugamano che ridono sguaiatamente di lui, indicandolo. In un attimo siamo dapprima su una strada, poi in un parcheggio, dove Mickey è nel vivo di un gioco di seduzione con una ragazza bionda … che si conclude su un letto. A seguire Mickey è sopra il palco di un night pieno di gente, una ragazza attraversa a nuoto il fondo di una piscina, di nuovo il protagonista si scambia effusioni con la bionda nel proprio camerino, che proseguono ancora una volta in un’altra stanza, stavolta isolata, dove sullo sfondo due uomini picchiano un terzo seduto su una sedia col chiaro intento di estorcere una confessione. Il tutto servito in poco più di 2 minuti, accompagnati dal ritmo leggero e jazzante del duo Getz/Sauter.
In questi minuti ritroviamo disseminati e confusi tutti gli elementi chiave del complesso film di Penn ma il fatto paradossale sarà che la visione completa non ci restituirà molta chiarezza in più, proseguendo con la visuale soggettiva e paranoide del protagonista.
Siamo nel 1965, Penn mette in scena un progetto personale e ambizioso, stilisticamente evoluto e per certi versi antesignano di un cinema ancora in divenire. Il periodo è quello dell’America post Maccartista la cui coscienza è brutalmente sconvolta dall’assassinio del presidente Kennedy, un momento storico che inconsciamente propone al cinema una tipologia di nemico diversa dal solito. Il cinema Usa è da sempre, nel suo complesso, capace di suggerire la percezione della paura più nascosta del paese. I ‘40 furono gli anni dei detective movies, il nemico era il bieco malavitoso e in opposizione c’era l’americano pulito, onesto, che combatteva il crimine. I ‘50 furono gli anni della fantascienza, del pericolo difficilmente identificabile e rintracciabile nella vita quotidiana, ma che riusciva comunque a postulare una propria enunciazione di presenza e figurativizzarsi in un interlocutore. I ‘60 saranno a tutti gli effetti gli anni dello spaesamento, la minaccia è l’incapacità di potersi fidare di qualcuno, di potersi rifugiare nei tipici valori umani e rurali (illusori?) in cui l’ America aveva sempre pensato di poter credere. Il nemico non ha un volto e può celarsi ovunque. La conseguenza è un protagonista solo, impaurito, senza certezze e riferimenti. Mickey One è sicuramente una pellicola che esprime al meglio questa percezione, ma Penn non si limita a questo.
Sono evidenti i debiti a uno stile europeo, per le sconnessioni stranianti tipiche di Godard, così per come si possono intuire alcune figure tipicamente felliniane. Penn concepisce una messa in scena impeccabile nello stile, attraverso l’utilizzo di ottiche spettacolari, ossessivi carrelli che esplorano angoli minacciosi e inquadrature che ricordano Wells. L’inquieta solitudine del protagonista, la sua mancanza di lucidità, sono le stesse che l’autore farà vivere allo spettatore, non per empatia, bensì attraverso la grammatica filmica.
La vista, infatti, per Mickey non è uno strumento affidabile, l’occhio lo conduce in un tormento allucinato dove la mente forza l’interpretazione dei fatti, fuorviandolo. Gli elementi logici vengono meno, sia quelli del protagonista, sia quelli tipici del cinema hollywoodiano e quindi anche per noi spettatori. Il protagonista, come noi, non sa cosa sia realmente accaduto, intuisce che qualcosa che non va c’è e l’unica certezza che riesce davvero a formulare è quella di essere in pericolo. L’angoscia psicologica del protagonista è il vero tema del film e lo spettatore ne viene a conoscenza attraverso lo sguardo sconclusionato e paranoide di Mickey e non con una comoda descrizione narrativa.
Volendo, potremmo anche azzardare una lettura metafilmica. Se lo sguardo è inattendibile cosa vediamo noi in un film? Nel decennio in cui si consacra lo sgretolamento dei generi cinematografici, un film non è più in grado di restituirci una rappresentazione del reale disincantata e confortevole? Cosicché l’americano, lo spettatore, proprio come Mickey dovranno rinunciare alla loro identità (lui straccia i suoi documenti) senza aver ancora maturato la consapevolezza di una nuova. Lo sguardo di Mickey è in crisi, ma ad esserlo è soprattutto quello del cinema o no?
Il film fu letteralmente un fiasco. Forse troppo europeo, con troppe astrazioni psicologiche affidate alla M.d.p., sicuramente in anticipo rispetto una libertà creativa e una riformulazione dei modelli narrativi che doveva ancora iniziare, in cui la mancanza di un nucleo narrativo riconoscibile rese questo film, agli occhi dell’epoca, un esercizio di stile impersonale, zeppo di simbolismi considerati ambigui.
Mai doppiato in italiano e scarsamente distribuito in Italia, Mickey One, letto con la coscienza di un cinefilo attuale, è un film straordinariamente moderno, ricco di suggestioni visuali, apparentemente slegato ma tenuto insieme da un’anima jazz e dalla mano sensibile e colta di un autore un po’ troppo facilmente messo in secondo piano. Quella che per alcuni potrebbe sembrare indeterminatezza è la massima espressione possibile di uno stato di irrazionale paura, di un uomo svuotato e fragile, che in fondo temporeggia aspettando la sconfitta.
Forse le parole pronunciate da Mickey potevano essere dette dallo stesso Penn : “Ma che cosa vogliono da me?”