EL CAMPO – Hernan Belon
Elisa (Dolores Fonzi, El Fondo Del Mar) e Santiago (Leonardo Sbaraglia, Intacto) sono una coppia di canonici sposini di Buenos Aires: vivono per la loro figlia Mathilda, di un anno e mezzo, si coccolano, fanno (spesso) sesso, anche quando lo script non lo richiede. La loro routine casca nel momento in cui Santiago trascina la famiglia in una fatiscente e spaziosa abitazione di campagna, che l’uomo intende ristrutturare e far divenire la loro stabile residenza.
Fin dall’arrivo nel “campo”, lontano dalla città e da quasi ogni altra anima viva, l’armonia del nucleo familiare vacilla: il trasloco, l’iper-apprensività di Elisa per la figlia e l’isolamento (senza dimenticare due vicini “rednecks” parecchio invadenti) minano la solidità psichica della donna al punto da trascinare progressivamente lei e marito in un gorgo di disagio, irritabilità ed instabilità emotiva. Come entità opprimenti, la casa e i campi circostanti si fanno largo all’interno della coppia, diventandone elemento minatorio.
Il gigadrammone ossessivamente intimista di Hernan Belon, regista argentino senza grossi precedenti, è un affresco di depressione totalitaria, un racconto che senza dubbio suscita le emozioni negative auspicate dal regista ma che si chiude miseramente e senza sapore; rendendo lecita una domanda alla quale né lui né noi riusciamo a dare risposta: perchè? Cercansi motivazioni di un film senza trama, senza impennate emotive, senza un messaggio particolarmente incisivo, che ricorda le ispaniche atmosfere spettrali di Del Toro ma che di fatto di “ectoplasmatico” ha solo ritmo narrativo e carisma.
In El Campo soffrono anche le spighe di grano e nonostante il tandem Fonzi-Sbaraglia tenga bene botta (con lei penalizzata dall’immondo doppiaggio italiano), così non fa il film, che non è altro che una rassegna di emozioni messe in fila in maniera un po’ approssimativa, di una coppia che si corruccia, soffre, litiga, fa pace. Alla stregua dei vicini di casa, che spesso ci capita di ascoltare e osservare senza bisogno di spendere novanta minuti e il costo del biglietto. E se proprio dobbiamo armarci di lanternino in cerca di una morale, allora il focus è sulla fragilità delle relazioni, dell’emotività di una neo-madre (depressione post-parto?) e il mostro del collasso di ciò che è stato costruito che incalza, sempre a un passo. La solitudine, la protezione della famiglia, l’amore. Sì, è autoconvincimento. Se viene a saperlo Fabio Volo, ci dirige il remake tricolore.
Nota conclusiva: Belon, non pago, sacrifica una lepre regalandoci una necroscena che di vivido ha solo lo schifo.